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1866: la verità

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Indice

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Introduzione

La cessione del Veneto Ricordi di un Commissario Regio Militare – Genova di Revel

1866: la grande truffa Il plebiscito di annessione del Veneto all’Italia – Ettore Beggiato

I Veneti nella preparazione e nella guerra del 1866 (con documenti inediti e rari) – Giuseppe Solitro

 

Introduzione

Perché trattare un argomento come il Plebiscito del 1866 in Veneto? L’idea mi è venuta mentre mi soffermavo a leggere i risultati della votazione: 641.758 SI, 69 NO, 273 NULLI. La mia attenzione si è subito posata su quei 69 no, perché questa cifra mi è sembrata troppo esigua per essere veritiera su come andarono i fatti.

Per ragionare in merito a questo argomento voglio utilizzare le parole con cui il Plebiscito del 1866 è già stato esaminato da tre studiosi: Thaon Genova di Revel (commissario regio militare italiano per la cessione del Veneto nel 1866), Ettore Beggiato (una delle anime del movimento venetista), Giuseppe Solitro (storico che ha lavorato durante il ventennio fascista).

Mio obbiettivo è, partendo da questi tre autori di idee completamente diverse, scoprire come si arrivò a quei 69 no. Di che cosa furono frutto? Questa è la domanda che mi ha accompagnato in tutta la mia ricerca.

Demetrio Serraglia

 

 

 

 

 

La cessione del Veneto

Ricordi di un Commissario Regio Militare

Genova di Revel

F. Lumacchi

Libraio – Editore

Firenze 1906

Questo libro va inquadrato durante i fatti del 1866, più tardi ricordati come terza guerra d’indipendenza. Oltre all’Italia sono attori in quel periodo nella storia del Veneto l’Austria, la Francia e la Prussia.

Il Generale Conte Genova Thaon di Revel fu l’incaricato da parte del Governo Italiano per le trattative riguardanti l’acquisizione del Veneto.

In quel periodo l’obbiettivo del costituendo regno Italiano era l’annessione del Veneto e del Lazio. Tutta la diplomazia sabauda si stava adoperando per far si che il Veneto passasse sotto il dominio dei Savoia. Il Lombardo-Veneto in quel periodo faceva parte dei domini austriaci. Altro Stato che aveva come avversario l’impero asburgico era la Prussia, che stava realizzando nelle terre tedesche lo stesso progetto che il Piemonte stava attuando nella penisola italiana. Quindi fu facile stabilire un’alleanza tra i due stati, essa fu firmata l’otto aprile 1866: il 4° articolo recita "Ce consentement ne saura etre refusé quand l’Autriche aura consenti à ceder le Royaume Lombardo-Venetien, et à la Prusse des territoires équivalens au dit Royaume en population". Tutto ciò sarebbe avvenuto in caso si fosse dichiarato guerra all’Austria, e se naturalmente la guerra fosse stata vinta.

Napoleone III, imperatore di Francia avrebbe voluto che tutto si svolgesse senza nessun conflitto.

Il 16 giugno i prussiani passarono le frontiere sassoni e annoveresi e quindi iniziò la guerra, nonostante tutti gli sforzi delle varie diplomazie europee. Di conseguenza il 20 giugno (in base ai trattati) il Regno d’Italia dichiarava guerra all’Austria-Ungheria.

Lo Stato Maggiore dell’Esercito italiano aveva grandi aspettative di vittoria nei confronti dell’impero asburgico, però dalle parole dello stesso Thaon di Revel emerge il fatto che i generali di divisione nulla sapevano l’uno dell’altro. La confusione era sovrana tra le linee italiane e l’Arciduca Alberto, comandante delle truppe austro-ungariche seppe di essere vincitore dai dispacci dell’esercito italiano; la battaglia di Custoza era da lui considerata un piccolo combattimento nel quale il nemico era stato respinto, a differenza di Lamarmora che la considerò una gravissima sconfitta.

Solo grazie alla sconfitta austriaca nella battaglia di Sadowa (3 luglio 1866), vinta dai prussiani, l’Austria cedette il Veneto a Napoleone III. L’Italia non era disposta a ricevere il Veneto per interposta persona e voleva che fosse rispettato l’onore delle armi in quella guerra. Fu tentato di salvare l’onore italico tramite la marina italiana, ma il risultato fu altrettanto disastroso a causa dell’impreparazione della marina italiana e della disorganizzazione degli stati maggiori. Lissa fu il luogo fatale per la marina italiana come Custoza lo fu per l’esercito, ma nonostante l’evidente sconfitta l’ammiraglio Persano si proclamò vincitore della battaglia.

La situazione era diventata ancora più gravosa per il Regno Sabaudo uscito sconfitto dalla guerra e costretto a scendere a patti sia con l’Austria che con la Francia diventata ormai padrona del Veneto in seguito all’armistizio tra Prussia e Austria.

L’Austria impone all’Italia come disposizione per un armistizio l’evacuazione delle truppe italiane presenti in Tirolo, l’Italia dovette accettare. Avutane notizia Napoleone III scrive a Vittorio Emanuele II: "… Padrone del suo destino, il Veneto potrà col suffragio universale esprimere la sua volontà. …". A Cormons viene poi firmato l’armistizio il 12 agosto. Anche nel preambolo del trattato della Pace di Vienna viene ribadito il fatto che l’Austria avrebbe ceduto i territori veneti alla Francia, e quest’ultima li avrebbe rimessi alle autorità venete e le popolazioni dovevano essere consultate per decidere la sorte del loro paese.

Quanto appena scritto è un breve sunto dei fatti che precedettero il vero lavoro diplomatico di Thaon di Revel, ma anch’essi sono significativi e sono una buona spia per capire poi come si svolse il lavoro diplomatico sia del Governo sia dei suoi delegati. Tutto si svolse come vedremo in modo caotico, violando quali fossero gli accordi precedentemente sottoscritti, questo è quanto afferma e giustifica Thaon di Revel. C’è chi ha preferito, per comodità, ignorare i trattati: l’Austria; e chi ha voluto ignorare gli accordi perché questo era l’unico modo per avere il possesso del Veneto: l’Italia.

14 settembre 1866: il Governo italiano affida a Thaon di Revel l’ufficio di Commissario Militare per gli accordi relativi alla consegna del Veneto da parte delle Autorità austriache alle Autorità italiane.

Ora elencherò alcune parte di trattati o dichiarazioni che illustreranno il comportamento delle parti in causa (Italia, Austria, Francia):

Visconti Venosta (ministro degli esteri) scriveva "Il Regio Commissario Militare dovrà pure concertare verbalmente ed in tempo opportuno coi tre Commissarii ai quali il Commissario francese farà la consegna del Veneto, tutte le precauzioni perché sia evitato ogni interva
llo, od ogni solennità ne a chiamata delle RR. Truppe per parte del Municipio di Venezia e perché appena fatta ai medesimi la consegna del Veneto, essi deferiscano alla persona designata a Regio Commissario Civile per quella città le incombenze di ragione."

Le istruzioni a Leboeuf erano dettagliate, al terzo e al quarto punto dicono: "3° Aussitot que la paix sera conclude, le Commissaire français recevra du Commissaire autrichien les places du quadrilatére et il en fera la remise aux autorités municipales successivement et en mettant le plus court délai possible entre chacune des opérations.

4° Le Commissaire français se rendra en suite à Venise, où la remise de la Vénétie lui sera faite par le Commissaire autrichien; il y réunira une Commission de trois membres à laquelle il fera la retrocession de la Vénétie.

Cette Commission déterminera, d’accord avec les autorités municipales, le mode et l’époque du plébiscite qui aura lieu librement par le suffrage universel et dans le plus bref délai possible."

Leboeuf tenne importante affermare alle parti in causa che in caso di dissenso si doveva far riferimento all’arbitrato della Francia, Thaon di Revel seguendo le istruzioni del presidente del consiglio Ricasoli fece di tutto per rendere il commissario francese antipatico a quello austriaco (Moering), per evitare così ogni sorta di interferenza della Francia nella questione Veneto.

Il problema principale di Thaon di Revel era di far partire quanto prima le truppe austriache dal Veneto e di ammettere le italiane, l’incognita era Leboeuf che "aveva solennemente dichiarato, che nessun soldato italiano doveva entrare nelle piazze, prima che queste fossero evacuate dagli austriaci e che si fosse fatto il plebiscito".

Il primo ottobre 1866 venne firmata una convenzione che tra Francia, Austria e Italia che al punto 2° stabiliva: "il commissario italiano s’incarica di dare le disposizioni necessarie onde provvedere un presidio italiano alle municipalità delle piazze, che gliene faranno richiesta, allorché le dette piazze saranno state cedute regolarmente alle municipalità dal Commissario francese." A commento di questa convenzione Thaon di Revel scrisse che questo documento era un modo per evitare l’intrusione dei francesi, e che fu firmata senza chiedere istruzioni al governo, perché all’interno del gabinetto italiano ognuno la pensava a modo proprio e mancava ogni tipo di unità di intenti.

Il 30 settembre 1866 Ricasoli trasmette un comunicato in cui scrive: "…Sono i Municipii, che devono apparecchiare ed eseguire il Plebiscito, e per questo lato io sono perfettamente tranquillo per le sei provincie, che già sono rette da funzionari a nome del Governo italiano. Vi sono tre provincie ancora, Venezia, Verona e Mantova, che sono oggi in uno stato prossimo all’anarchico. Vi occorre la installazione dei Commissarii italiani, e la composizione immediata di Municipii di buona fattura, cosa può aversi se non col mezzo dei Commissarii. Per queste ragioni credo non si possa convocare il Plebiscito, se non immediatamente dopo l’ingresso delle truppe nostre nelle tre città suddette e l’arrivo dei Regi Commissarii. (…) Inoltre si baderà bene che il Commissario francese abbia ad usufruire largamente della sua ridicola posizione; e nulla possa intervenire per renderlo anco minimamente serio. (…) Conviene tentare tutte le vie per annullare la presenza del Leboeuf ed io pubblicherò anco prima il Plebiscito, se ciò potesse valere a questo fine; ma finche non abbiamo i Commissari a Venezia, a Verona e Mantova, temo inconvenienti. Credo però che più si stringeranno relazioni tra i due generali austriaco e italiano: più che l’austriaco vedrà l’impegno nostro di far partire le truppe austriache con decoro e più annulleremo la presenza stupida e inutile del Commissario francese vero camorrista su larga scala, che vuol profittare dell’altrui fatiche senza aver fatto uno zero."

Il 15 ottobre ci fu una discussione tra Leboeuf e Thaon di Revel che il commissario italiano riferì così al Ministro Visconti Venosta: "Il generale Leboeuf mi parlò lungamente del Decreto Reale col quale si vuol fissare il Plebiscito. Crede che ciò sarà considerato a Parigi come contrario agli accordi presi. Gli osservai che se non si faceva presto, vi sarebbe Plebiscito per acclamazione oppure che se ne asterrebbero per rispetto a quello del 1848. (…) Nelle provincie unite un decreto esser indispensabile (…) Mi rilesse per la centesima volta le sue istruzioni che lasciano ai notabili di determinare il Plebiscito. Gli risposi che così volendo non si troverebbero i notabili, o trovandoli non vi sarebbe più plebiscito. (…) Se non si fa prontamente il Plebiscito in un modo qualunque, non si farà più. Le popolazioni vi si rifiuteranno come cosa inutile, perché già fatto nel 48. (…) Per soddisfare la sua vanità, chieggo di essere autorizzato a far fare dai notabili una risposta insignificante al discorso ch’egli pronunzierà a nome dell’Imperatore, il quale rimarrà ignoto, perché non lo lascierò pubblicare dai giornali di Venezia." Visconti in risposta disse di far negare l’esistenza del decreto e di farlo risultare come delle semplici istruzioni ai Municipi veneti per far si che il Plebiscito si svolgesse regolarmente e senza irregolarità.

Parlando dei notabili da scegliere come rappresentanti del Veneto Leboeuf si disse preoccupato, ma come da istruzioni precedentemente ricevute la risposta di Thaon di Revel fu pronta ed efficace: "…Qual è la base sulla quale poggiate il vostro criterio per scegliere i notabili? – Avere delle persone notabili che rappresentano il Veneto, m’interruppe Leboeuf. – Benissimo, ma come potete essere sicuro della buona scelta? Chi ve ne da informazioni sicure, certe, coscienziose, e che non si rinchiudano in città ma comprendano tutto il Veneto? (…) Mi ammetterete che è desiderio dell’Imperatore e vostro che questi tre notabili rappresentino il Veneto. Come pure, che le tre città di Venezia, Verona e Mantova, costituiscano la parte più importante del Veneto. (…) Chiamate i rappresentanti di queste tre città, sono naturalmente i capi dei loro Municipii; a loro retrocedete il Veneto, e così farete l’atto in modo solenne, rispettando il principio d’autorità e senz’avere a temere qualche improntitudine offensiva per l’Austria dalla parte dei notabili.(…)." I nomi dei tre notabili furono poi suggeriti da Thaon di Revel, e furono De Betta, Emi-Kelder e Michiel

Il commissario Leboeuf voleva dare grande risalto al passaggio del Veneto ai notabili Veneti, questo però non era ben visto da parte del Governo Italiano che si adoperò per evitare ogni tipo di solennità. Si voleva inoltre che l’avviamento dell’occupazione italiana avvenisse prima del Plebiscito. Parlando ancora dei notabili che avrebbero dovuto rappresentare il Veneto, Thaon di Revel annota che "Scegliendo gl’individui che si proponevano da Parigi si creava un’autorità speciale sul veneto, che poteva dar luogo a qualche aspirazione autonoma od anche repubblicana per Venezia. Dovrebbero essi indire il Plebiscito od affidar
ne l’incarico ai Municipi? Era una questione che poteva sorgere e recare imbarazzi. Se invece i notabili fossero rappresentati dai capi dei Municipi principali; Mantova, Venezia e Verona, questi ricevuta la consegna, ordinavano subito il Plebiscito; l’azione governativa non rimaneva sospesa, e gli animi naturalmente portati a votare pel Regno d’Italia, non rischiavano di essere disturbati da faccendieri politici, ai quali all’uopo l’Autorità municipale, rinforzata dalla militare, avrebbe imposto il silenzio. Miniscalchi, Strozzi, Giustiniani ed altri eran degnissimi e perfettamente adatti per tale scelta, se non vi ostassero le considerazioni sovra esposte; perciò pensai bene, sin dai primi giorni, di esporre le mie idee a Ricasoli, fra le quali eravi quella di far sentire a quei signori, che sarebbero richiesti da Leboeuf, direttamente o per intermediario, che il Governo desiderava che essi declinassero l’invito. Mi riservavo poi di condurre Leboeuf, senza che si avvedesse del partito preso, a richiedere Michiel, De Betta ed Emi-Kelder."

Ritornando al decreto reale per il Plebiscito, questo fu pubblicato in un manifesto dal commissario civile a Treviso. Ciò, naturalmente, causò la reazione di Leboeuf che ritenne tale atto un insulto alla Francia: minacciò di non cedere più il Veneto, e di far sbarcare dalla propria nave ancorata a Venezia un distaccamento di marina. Leboeuf affermò che senza ulteriori ordini da parte di Napoleone nulla sarebbe stato fatto. A Thaon di Revel, nonostante avesse letto il Regio Decreto del 7 ottobre che stabiliva le date per il Plebiscito, fu ordinato di dire al Commissario Francese "che egli si sognava un Regio Decreto che non esisteva", e che era necessario fare quanto prima tale Plebiscito e che ogni atto che era stato pubblicato non era autorizzato. Queste dichiarazioni di Thaon di Revel bastarono a far calmare gli animi o comunque servirono a far ignorare quella palese violazione dei trattati; tutto stava procedendo come l’Italia si augurava: si stava estromettendo la Francia da ogni minima ingerenza, e si puntava a stabilire con l’ingresso delle truppe italiane nelle varie città lo status quo per ogni possibile rivendicazione successiva di territorio da parte di ogni qualsivoglia autorità.

Leboeuf affermò che senza ulteriori ordini da parte di Napoleone nulla sarebbe stato fatto. A Thaon di Revel, nonostante avesse letto il , fu ordinato di dire al Commissario Francese "che egli si sognava un Regio Decreto che non esisteva", e che era necessario fare quanto prima tale Plebiscito e che ogni atto che era stato pubblicato non era autorizzato. Queste dichiarazioni di Thaon di Revel bastarono a far calmare gli animi o comunque servirono a far ignorare quella palese violazione dei trattati; tutto stava procedendo come l’Italia si augurava: si stava estromettendo la Francia da ogni minima ingerenza, e si puntava a stabilire con l’ingresso delle truppe italiane nelle varie città lo status quo per ogni possibile rivendicazione successiva di territorio da parte di ogni qualsivoglia autorità.

L’intenzione di Leboeuf era quella di fare una cessione in grande stile, ma l’intento del Governo Italiano fu quello di far passare tutto in un tono minore, perché la presenza francese dimostrava che il Veneto non era stato acquisito con vittorie militari ma grazie ad un’intermediazione Francese. Thaon di Revel fece si che nel discorso del Commissario Francese durante la retrocessione ai Notabili del Veneto non ci fosse alcun riferimento al modo di votazione del Plebiscito e che ogni istruzione fosse riservata ai rappresentanti del Governo Italiano, desumendole dal "mai emesso" Decreto Reale.

Il 19 ottobre 1866 ebbe luogo la consegna di Venezia e del Regno Lombardo-Veneto fatta dall’Austria alla Francia. Poi ci fu la retrocessione del Veneto da parte della Francia alle autorità municipali, tutto si svolse in un camera dell’albergo Europa e senza la minima solennità. È da notare un passo del discorso fatto da Leboeuf a nome dell’Imperatore Napoleone III: "Mais, pas respect puor les droits des nationalités et puor la dignité des peuples, l’Empereur a voulu laisser aux Vénitiens le soin de manifester luer voeu".

Poi come da disposizioni già ricevute, ogni appello francese ad un giusto Plebiscito venne ignorato, i tre notabili si affrettarono ad eseguire gli ordini del Governo Italiano e quindi tre giorni prima della data del Plebiscito (anch’essa stabilita dal Regio Decreto) il Veneto fu consegnato al Regno d’Italia. La formula per il Plebiscito, come prevedeva il Regio Decreto del 7 ottobre, era la seguente: "Dichiariamo la nostra unione al Regno d’Italia sotto il governo monarchico costituzionale del re Vittorio Emanuele II e de’ suoi successori". Il voto doveva essere espresso con un sì, od un no, per mezzo di un bollettino stampato, o manoscritto.

L’intervento di Napoleone III risolse ogni problema italiano sia d’umiliazione, sia per quanto concerne il diritto: furono evitate le bandiere francesi, e fu evitato di interrogare la popolazione a riguardo del tipo di governo che voleva, tutto si doveva semplificare attraverso un si o un no a riguardo di un dato di fatto (l’occupazione militare del Veneto).

Il Plebiscito si svolse il 21 e 22 ottobre e tutto procedette come il governo italiano aveva previsto, prima della conclusione delle votazioni già si predisponeva l’arrivo del Re a Venezia e in tutto il Veneto. Thaon di Revel tiene a sottolineare che il ritardare l’arrivo del Re al 7 di novembre avrebbe avuto come risultato il venire meno dell’entusiasmo della gente a confronto del 19 di ottobre, come poi fu dato verificare. Altra cosa che il Commissario Italiano tende ad affermare è che "Si può dire coscienziosamente che tutti i Veneti erano per la monarchia costituzionale di Vittorio Emanuele. Nessuno pensava alla repubblica veneta." Sempre Thaon di Revel scrive che non ci fu nessuna dimostrazione clamorosa, ma una gioia intima universale che rendeva i Veneziani tutti amici fra di loro. Gli ovvi risultati di un Plebiscito preparato in tal modo dal Governo Italiano furono resi pubblici il giorno 27 dal presidente della Corte d’Appello di Venezia Tecchio (altro funzionario del Governo Sabaudo): la corte d’Appello doveva controllare la regolarità della votazione. La somma dei voti del Plebiscito fu 641757 si, 69 no, 366 nulli.

Perché riportare tutta questa serie di corrispondenze e di documenti a riguardo dell’operato di Thaon di Revel in Veneto? Per constatare un dato di fatto, ovvero che il tutto non si svolse in modo chiaro, anzi si cercò ogni mezzo per insabbiare questa trattativa tra Austria, Francia, e Italia. In questo scritto di Thaon di Revel ho voluto trovare quegli indizzi che mi consentono di intravedere come i fatti si siano svolti, o meglio di notare quali siano le incongruenze, più o meno volute, annotate dal commissario italiano.

Cosa che mi lascia alquanto perplesso leggendo questo libro sono i due paragrafi dove si accenna alla repubblica Veneta, sembra che la preoccupazione principale sia l’eliminare ogni possibilità del ritorno della Repubblica. Ma cosa mai poteva preoccupare il governo italiano dato che solo 69 persone si espressero per il NO? Allora torna subito alla mente il fatto che ogni occasione era lecita per eliminare dalle trattative la Francia, che voleva (naturalmente per indebolire sia l’Austria che l’Italia) che la consultazione fosse regolare e ch
e l’ingerenza del Regno d’Italia fosse minima.

Altri fatti sembrano porre altri quesiti in merito alla condotta del Governo italiano, oltre al famoso decreto del 7 ottobre di cui poi si negò l’esistenza: si tentò di non far rientrare nelle proprie città i reduci volontari ed emigrati; si accusò il popolo (a cui si faceva sempre appello per devozione alla causa italiana) di un omicidio di uno jager austriaco, al solo scopo di difendere i soldati piemontesi; non furono scarcerati i prigionieri politici (come previsto dagli accordi di Pace) appartenenti alle bande armate del Friuli e del Bellunese e i militanti del Partito d’Azione perché osteggiavano ogni governo legalmente costituito; alcuni giorni prima del Plebiscito su ordine di Ricasoli furono versate 10000 lire a beneficenza degli operai veneti senza lavoro. Tra le truppe italiane dirette a Venezia c’era il problema del colera, e per evitare una sommossa da parte della popolazione all’entrata dell’esercito nella città si decise di avere la complicità dei più rinomati medici e di sovvenzionare i lavori di bonifica delle zone infestate e di stanziare fondi per le famiglie che già erano state contagiate in città: per far si che tutto passasse sotto silenzio e che l’entrata delle truppe, ritenuta indispensabile, nonostante l’appoggio delle popolazioni, avvenisse.

Il primo ottobre 1866 per ordine del governo italiano fu deciso di nominare senatori le persone più in vista del Veneto, stando alle parole di Thaon di Revel nella lista non furono compresi, nonostante fossero idonei e meritevoli, i conti Andrea Cittadella e Marcello perché avevano appoggiato l’arciduca Massimiliano, nella speranza di avere un regno Lombardo-Veneto costituzionale, non volendo l’unificazione dell’Italia.

All’arrivo del Re in Venezia per avere un effetto positivo sul popolo si decise di elargire 100 mila lire alle famiglie povere invece che disimpegnare i piccoli pegni depositati al Monte di Pietà, essi ammontavano a più di 765128 fiorini, tale operazione fece guadagnare molto alle casse del regno.

Altra preoccupazione di Thaon di Revel che a me sembra strana, dato che il popolo Veneto era entusiasta dell’unione all’Italia, fu il fatto che insisteva presso il governo di avere i carabinieri appena fatta la cessione per sostituire la Guardia Nazionale, cosicché i regi carabinieri potessero vigilare durante il plebiscito.

Questi atti sembrano prevedibili se si stesse parlando di colonizzazione o di occupazione di una terra ostile, paiono invece strani dato che si trattava di una terra in cui le persone contrarie all’unità erano solo 69. Quindi il dubbio e l’interrogativo che ci siamo posti rimane: era così unanime la volontà di essere annessi all’Italia o ci fu uno stravolgimento diplomatico da parte d’Italia, Francia e Austria che portò a tali risultati nel plebiscito?

 

 

 

 

Ettore Beggiato

1866: la grande truffa

Il plebiscito di annessione del Veneto all’Italia

Prefazione di Sabino Acquaviva

Editoria Universitaria – Venezia 1999

 

In questo scritto Ettore Beggiato tratta del plebiscito del 1866 che unì il Veneto all’Italia, ne parla in modo diverso rispetto ad altri libri di storia che analizzano il medesimo periodo, scrive evidenziando quale fosse il sentire del popolo rispetto agli avvenimenti che lo stavano coinvolgendo. Dal suo punto di vista, questo libro vuole ribaltare la storia scritta da chi poi ha preso il potere, e vuole ristabilire nuovi punti di partenza per ripercorrere i vincoli che stanno tuttora unendo il Veneto all’Italia. Questo libro è una sorta d’inchiesta per ristabilire se tutti gli avvenimenti si svolsero con le regolarità del caso, e per mettere in luce un argomento poco trattato dai manuali di storia.

Il plebiscito fu frutto degli accordi internazionali successivi alla guerra Austro-Prussiana e Austro-Italiana del 1866 (terza guerra d’indipendenza), in cui sia per terra che per mare il regno d’Italia subì umilianti sconfitte.

Il plebiscito, come dice Beggiato, fu una truffa a danno del popolo veneto e non era un fatto isolato in Italia in quel periodo: truffa furono tutti i plebisciti che sancirono l’unità dell’Italia sotto il dominio dei Savoia. I plebisciti non risultarono altro che delle truffe per confermare quale fosse il volere di chi quei plebisciti indiceva.

Beggiato tende a sottolineare quale fosse l’attaccamento del popolo Veneto alla Repubblica Veneta (sia quella dei Dogi, sia quella di Manin) e ciò che essa rappresentava nell’immaginario collettivo; fatto emblematico è il grido di "viva San Marco" dei marinai istro-veneti (arruolati nella marina asburgica) nella famosa battaglia di Lissa. Beggiato nella sua esposizione fa presente che fu intento dei vari governi che si susseguirono alla guida dell’Italia eliminare o quantomeno arginare ogni identità locale.

I trattati internazionali sottoscritti dalle varie parti in causa nel 1866 (Austria, Prussia, Italia e Francia) riconoscono al popolo Veneto il diritto di scegliere il proprio futuro, successivamente questo diritto sarebbe stato chiamato diritto all’autodeterminazione.

Nella questione del 1866 riguardante il Veneto emerge un attore inaspettato: la Francia, essa compare perché l’Austria non avendo perso sul campo alcuna battaglia con l’Italia decide che il Veneto può essere ceduto esclusivamente ad uno stato terzo che si assuma la responsabilità di fare da garante rispetto ai destini delle terre venete.

Il plebiscito fu visto come una festa che coinvolse tutto il Popolo Veneto; questo è quanto scrive la storiografia ufficiale, ma ci sono documenti che mettono in dubbio il fatto che la festa fosse spontanea e non indotta da fattori esterni. "Garibaldi si infuriò perché i Veneti non si erano sollevati per conto proprio, neppure nelle campagne dove sarebbe stato facile farlo", ciò fa nascere scetticismi rispetto all’effettiva condivisione e consapevolezza dei Veneti rispetto agli atti che li stavano coinvolgendo.

Beggiato riporta quanto ha scritto (3/8/1866) l’ambasciatore asburgico Metternich a Parigi il quale ritiene possibile arrivare all’indipendenza della Venezia sotto un governo autonomo com’era la vecchia Repubblica. Altre testimonianze che fanno sorgere dei dubbi rispetto al fatto che tutti volessero l’unità del Veneto all’Italia sono riportate nella corrispondenza del commissario Francese Leboeuf e di quanto scrivono i comuni. L’esito della votazione fu scontato dato che la presenza dell’esercito italiano sul territorio Veneto era massiccia, però è bene ricordare che su una popolazione di circa 2.500.000 di abitanti votarono solamente in 650.000.

Minacce in caso di voto contrario all’unità con l’Italia arrivarono ai parroci veneti, ricordando loro che in caso il voto non fosse stato unanime per il SI sarebbe stato difficile contenere qualche "pubblica e dolorosa soddisfazione" nei loro confronti.

< div align="justify">Altro avvenimento indicativo è che a Valdagno solo il 30% della popolazione andò a votare, ma i libri dicono che in tutto il Veneto la popolazione era concorde nel votare l’unità all’Italia: come mai questa incongruenza? La risposta risiede nelle modalità con cui si svolsero l’intera votazione e la campagna di propaganda che la precedette. "Le autorità comunali avevano preparato e distribuito dei biglietti col si e col no di colore diverso; inoltre, ogni elettore, presentandosi ai componenti del seggio, pronunciava il proprio nome e consegnava il biglietto al presidente che lo depositava nell’urna". Altre istruzioni per il plebiscito recitavano così: "Vi devono essere due urne separate, una sopra un tavolo, l’altra sopra l’altro.(…) Sopra una sarà scritto ben chiaro il Sì, sopra l’altra il No.(…) I protocolli sono due, – uno pei votanti che presentano il viglietto del Sì, l’altro dei votanti che presentano il viglietto del No, per modo che il numero complessivo dei viglietti che, finita la votazione, si troveranno in ciascheduna urna, dovrà corrispondere all’ultimo numero progressivo del protocollo."

I manifesti per il plebiscito, per quello che dicevano, erano una sorta di ricatto morale a chi andava a votare, in uno di questi si può leggere: "Chi dice Sì mostra sentirsi uomo libero, padrone in casa propria, degno figlio d’Italia. Chi dice No la prova d’anima di schiavo nato al bastone croato! Il Si, lo si porta all’urna a fronte alta, sotto lo sguardo del sole, colla gioja nell’anima, colla benedizione di Dio! Il No, con mano tremante, di nascosto come chi commette un delitto, colla coscienza che grida: traditore della patria!" La Gazzetta di Verona il 17 ottobre 1866 parlando del plebiscito riporta: "Sì, vuol dire essere italiano ed adempiere al voto dell’Italia. No, vuol dire restare veneto e contraddire al voto dell’Italia". Come mai sottolineare l’essere veneto? Non erano forse tutti per l’unità? Questo mi sembra uno dei vari elementi che mettono in dubbio il fatto che i risultati del plebiscito non siano la risultante della reale volontà della gente veneta. Per concludere quanto Beggiato ha affermato a proposito del plebiscito viene riportato quello che succedette nel 1903 allo storico Luigi Sutto di Rovigo che fu incaricato dal Museo del Risorgimento di ricostruire dati ed episodi del Plebiscito. Il suo insuccesso fu quasi totale perché non riuscì a visionare i verbali del plebiscito. Perché gli fu vietata tale visione?

Beggiato dopo aver posto degli interrogativi sulla veridicità dei risultati del plebiscito, passa ad analizzare ed a elencare cosa causò ai veneti l’essere uniti al regno d’Italia. Dopo il 1866 iniziò una vera e propria diaspora della gente veneta verso i continenti d’oltre oceano, e per coloro che rimasero iniziò una lunga sofferenza segnata da tasse, fame e miseria. L’unità al regno d’Italia per il Veneto ben presto si trasformò in una vera occupazione: "il governo italiano a confronto dell’Austria aveva tre volte tanto di regolamenti, tre volte tanto di personale di pubblica sicurezza, di carabinieri…" Il governo italiano arrivò a proibire le tradizionali processioni religiose in quanto assembramento pericoloso per l’ordine pubblico.

Nel periodo post unitario tra la gente veneta videro la luce molte filastrocche che denigravano l’Italia, gli italiani e i Savoia; ciò rispecchia il disagio che regnava tra i Veneti. Questo disagio come ho detto è dovuto anche al fatto che per vari decenni il Veneto fu la regione con la più alta percentuale di emigranti: cosa aveva avuto se non quanto appena detto il Veneto dall’unità all’Italia? Ecco, è proprio questo l’interrogativo che si ripete nelle pagine scritte da Beggiato. Io dopo la lettura del suo libro non posso che associarmi a Beggiato in questa domanda che tende a diventare un vero e proprio enigma se si collegano le riflessioni riportate in altri libri, gli stessi libri pubblicati dagli storiografi del Regno d’Italia. È necessaria per gli anni a venire una rilettura di quanto successe in Italia nell’epoca dei plebisciti, per stabilire quale sia la reale successione dei fatti. Nulla può più danneggiare una storia di un Paese che la negazione dei fatti realmente avvenuti, altrimenti si rischia di trovare un presente come quello che Orwell nel suo libro "1984" ha suggestivamente descritto. Questa negazione o revisione del passato ad uso e consumo di chi sta al potere non è un fatto isolato al 1866 ma è una pratica che si perpetua spesso in ogni Stato. È risaputo che la storia spesso è scritta da chi ha vinto. A mio avviso per affrontare il futuro è necessario avere consapevolezza di cosa nel passato sia realmente accaduto; la memoria storica è il bagaglio che ogni popolo porta con sé, senza la quale viene a mancare la consapevolezza del proprio essere.

 

 

 

Giuseppe Solitro

I Veneti nella preparazione e nella guerra del 1866

(con documenti inediti e rari)

VENEZIA- Premiate Officine Grafiche Carlo Ferrari

1932 – Anno X E.F.

 

Giuseppe Solitro scrive questo libro sui fatti svoltesi in Veneto nel 1866, durante il periodo fascista, quindi il libro ha una chiara impronta nazionalista, conforme al pensiero unico, e evidenzia l’inevitabilità del processo storico che portò all’annessione del Veneto da parte dell’Italia.

Nonostante la parzialità di chi ha scritto il libro, influenzato dal clima che si respirava nell’Italia fascista, si riescono a notare parecchi segnali che fanno sorgere dei dubbi a riguardo dell’unanime volontà dei Veneti all’unità con l’Italia.

È da notare che lo stesso autore sottolinea che le rivendicazioni nazionali in Veneto, come nel resto della penisola, vennero da una minoranza. A conferma di ciò, è ormai noto che i primi tentativi battuti dal governo del Regno per l’acquisizione del Veneto furono fatti tramite dei mediatori che promisero forti somme di denaro per l’acquisto del Veneto dall’impero austriaco, qui emerge che il Governo Italiano non era interessato a consultare le popolazioni venete. A Vienna l’opinione pubblica non voleva cedere il Veneto, nemmeno in cambio di denaro, e questo fu uno dei motivi che fece naufragare la trattativa.

Poi la questione Veneto fu merce per le beghe elettorali per il rinnovo del parlamento, sciolto per il trasferimento della capitale del regno da Torino a Firenze. Tutti si facevano portabandiera del patriottismo e sostenevano avrebbero fatto quanto possibile per redimere le terre sotto la dominazione austriaca.

Punto focale della ricerca e del lavoro di Solitro è stato il prendere in esame i Veneti che volevano l’unità al Regno d’Italia, questi erano raggruppati all’interno dei Comitati segreti nazionali, e come punto di riferimento avevano il Cavalletto (punto d’unione tra l’emigrazione veneta e il governo italiano). Varie furono le strade battute da questi comitati, sia all’interno del Regno d’Italia sia all’interno dell&r
squo;Impero asburgico (l’Ungheria) ma entrambe diedero pochi frutti e molte delusioni.

La titubanza della classe dirigente italiana fece nascere molti dubbi a chi nel Veneto voleva scacciare l’Austria, perché ogni azione dei mediatori italiani per l’acquisizione del Veneto era debole e nessuno voleva inizialmente impegnarsi in una guerra. La perplessità dei veneti fu chiamata impreparazione, mancanza di fermezza, non disponibilità alla resistenza.

L’unico Stato in Europa che fece da sponda all’Italia per l’affare Veneto fu la Prussia, interessata all’egemonia nell’area tedesca e quindi ad un indebolimento dell’Austria; per far ciò risultava utile un impiego militare dell’Italia nei confini sud dell’impero, esclusivamente nel Veneto e non in altre aree (Tirolo, Istria).

Quando il patto Italo-Prussiano era già sancito l’Austria propose all’Italia la cessione del Veneto per evitare di dover combattere su più fronti, tale proposta fu rifiutata perché troppe erano le accuse di tradimento mosse dalla Prussia.

Ritornando ai Comitati segreti, questo periodo è ricco di corrispondenza sul da farsi e su come gestire la mobilitazione dei Veneti. Il Cavalletto sconsiglia l’arruolamento di volontari, e propone che questi rimangano nel Veneto a preparare la guerriglia, forte è la diffidenza nei corpi garibaldini o simili che non combattevano chiaramente per la Monarchia ma per l’ideale di libertà. Questa sfiducia nei volontari è sintomatica e mostra già come era considerato il popolo: un’entità di cui diffidare perché metteva in dubbio l’ordine costituito.

Il Cavalletto nelle settimane imminenti la guerra venne aggregato all’Ufficio informazioni (servizi segreti), ma si trovò solo a dirigerlo. Ciò qui si afferma cozza con quanto spesso viene ripetutamente detto nelle pagine di questo e di altri libri: ossia che il popolo veneto sia emigrato, sia ancora nelle Venezie fosse in gran numero pronto al servizio alla patria italiana; se questo popolo c’era, in questo momento cruciale per le sorti del Veneto, come mai non era a fianco dei comitati segreti?

Il 20 giugno 1866 l’Italia dichiarò guerra all’Austria.

I giovani veneti erano spinti dai comitati segreti presenti nelle città ad arruolarsi per l’Italia, mentre chi vi si rifiutava era insultato. I numeri di chi partiva per arruolarsi erano di 100-200, stando a quanto riferisce la polizia austriaca che preferiva lasciarli partire, dato che il numero era esiguo, che averli nelle retrovie.

I comitati bellunesi ridimensionarono le voci a riguardo i disertori presenti nella propria zona, affermando che le voci affermavano essere 40, ma loro ne hanno visto solamente 4 e questi sono gente di dubbia volontà.

Durante tutta la guerra del 1866 vengono accusate le popolazioni rurali (maggioritarie in Veneto) perché dominate dal gendarme e dal prete. Mentre sul basso Po (zona di Rovigo) il servizio d’informazioni procedeva egregiamente, e gli informatori erano tutti gente per bene; nel linea del Mincio gli abitanti delle campagne veronesi erano intimiditi e alieni a correre rischi, sia pure per la causa italiana. Solitro riporta che nelle città come Verona e Mantova, si erano stabilite relazioni con persone fidate, ma appena si avvicinò la guerra, esse non si fecero più vive. Quindi si dovette ricorrere a una sorte di mercenari che alle prime avvisaglie di guerra si dileguarono. Ciò fa emergere quella serie di incongruenze rispetto al fatto che si era disposti a tutto per l’unione del Veneto all’Italia. Lo stesso Cavalletto accusa chi operava nel veronese di inerzia rispetto a quanto era necessario per l’unità d’Italia, e inoltre incolpa Verona come la città del Veneto che meno s’impegnava per sostenere le operazioni dell’esercito.

Prima della conclusione della guerra si pensava già il da farsi per la futura amministrazione del Veneto occupato, mentre si pensava a chi affidare l’ufficio di commissari regi per la reggenza delle province, emersero due scuole di pensiero: una che per l’incarico dovessero essere scelti i Veneti stessi; l’altra che sosteneva la necessità di scartare i commissari indigeni perché non adeguati per capacità e idee politiche (repubblicane). Quindi il timore che permane è che qualcuno avesse idee politiche diverse da quelle monarchiche, e quindi ogni opposizione doveva passare sotto silenzio ed essere emarginata.

L’opera di staffetta dei veneti che combattevano per l’Italia era osteggiata dagli stessi veneti che erano sotto il servizio dell’Austria; uno di questi episodi è riportato dal Solitro, quindi in alcuni emergono delle sfumature da guerra civile.

Il partito d’Azione era perplesso su che posizione prendere rispetto la guerra che andava iniziando dato che come lo stesso Mazzini, interrogato in merito, disse: "Il continuare a dire: vogliamo una guerra d’iniziativa popolare, quando nessuno risponde, in verità è ridicolo. La questione politica rimane la stessa… Ma astenersi, in verità non ha senso, né moralità". Quanto disse Mazzini non convinse tutti. Però il Cavalletto cominciò anch’esso ad appoggiare la formazione delle bande armate. Tranne che da un’esigua minoranza, l’adesione alla guerra non era condivisa dal popolo: è ciò che emerge da quanto Mazzini afferma.

L’impressione è che tra le genti venete fosse latente l’impressione che ogni impegno in questa guerra fosse inutile, anche perché ci si esponeva a rappresaglie da parte delle forze in ritirata. L’apatia della gente a questa guerra fu fatta anche risalire all’esito della battaglia di Custoza e all’improvvisa e inattesa cessazione delle ostilità. Gli stessi comitati veneti dopo Custoza non credettero più a quanto l’Italia prometteva e non erano più disposti a essere i portabandiera di illusioni, in cui i loro conterranei potevano morire.

Da questa sequela di fatti riportati emerge che l’impegno maggiore di chi combatteva tra i volontari era, come diceva il Giacomelli (legato al partito d’Azione): "…quando si tratta di combattere l’Austria, io ci sto con tutti", quindi più che essere per il regno d’Italia si era contro l’occupante austriaco.

Uno degli informatori della zona di Udine esprimeva l’opinione che vi erano sia armi che camicie per armare e vestire i volontari, ma non c’era la garanzia che a tempo debito vi fosse la gente. L’informatore continua lamentandosi di essere rimasto solo, mostrandosi sfiduciato dell’insurrezione sui monti. Questo è un altro segnale che mostra l’incertezza del fatto che la gente abbia unanimemente appoggiato la rivolta a favore dell’Italia.

Altri furono mandati ad arruolare volontari nelle vallate del Cadore e di Udine, ma tutto proseguiva a rilento: la formazione del corpo, la reperibilità delle armi, il proseguimento della guerra (terminata troppo presto). Questi fattori portarono allo scioglimento delle bande di volontari senza che la gran parte di esse fosse impegnata in veri scontri. Finché furono in vita le bande necessitarono di avere degli ufficiali per comandare; i servi
zi d’informazione affermavano che c’era mancanza assoluta di capi autorevoli e capaci e che era importante continuare la ricerca per avere quanto prima degli ufficiali a capo delle bande.

La conclusione del Cavalletto fu che i Comitati interni al Veneto non bastavano per condurre a termine positivamente la campagna del 1866, ma era necessario l’intervento del Governo per qualche svolta nella guerra. Difatti le offerte private non bastavano, e solo nella zona di Padova si sperava di raccogliere qualche finanziamento: questa serie di fatti metteva in crisi i comitati segreti veneti soprattutto quelli esteri.

È noto quali siano state le vicissitudini da parte dell’esercito italiano durante la guerra del 1866 e quale l’anarchia che regnava tra le varie divisioni. Inizialmente il Solitro riporta l’accusa del Cavalletto rivolta agli informatori presenti dietro le linee nemiche affermando che "…fu fatale che da Verona non ci siano state mandate mai notizie recentissime, e che, in difetto di uomini coraggiosi non si sia adottato a tempo il mezzo dei piccioni. …".Continuava affermando che chi si era impegnato, aveva mancato le promesse date. Altri attribuivano ogni colpa ai preti e al dispotismo che avevano reso impossibile ogni comunicazione intimorendo la gente. Solo anni dopo le colpe furono ricondotte al Quartier generale che non aveva trasmesso le informative. A chi si doveva dar ragione?

Cosa intervenne a favore dell’Italia? La vittoria prussiana con la conseguente minaccia incombente su Vienna. Ciò provocò il panico in Austria e quindi fu subito offerto il Veneto alla Francia perché facesse da mediatrice con l’Italia. I veneti che combatterono per l’Italia furono offesi da questa offerta, preferendo all’umiliazione l’occupazione austriaca. L’Italia, vedendosi isolata a livello internazionale e frazionata internamente, fu costretta ad accettare la mediazione francese attraverso l’intervento di Napoleone III.

I comitati segreti lamentavano ripetutamente il fatto della prematura sospensione delle ostilità perché rimanevano sotto il dominio austriaco ancora molte altre terre: il Tirolo, l’Istria e la Dalmazia. La progressiva occupazione militare delle province venete continuò; per il Governo Italiano era necessario mettere di fronte l’Austria ad un dato di fatto in prospettiva alla successiva Pace.

Ora con la presa di possesso delle città il compito dei comitati segreti era quello "…di sgomberare il terreno di coloro ch’erano rimasti per una ragione, o per l’altra fedeli al cessato governo, perché non intralciassero l’opera dei Municipi liberi e dei Governi provvisori quivi stabiliti." Il foglietto che era fatto girare a coloro che parteggiavano col vecchio governo citava: "Signore: vi sono dei momenti nei quali per certe persone non esiste miglior partito che farsi dimenticare. Ella è una di questa. Noi la consigliamo quindi a non cercare con l’intrigo e con la cabala d’ingerirsi negli affari del Municipio, mentre il paese userà d’ogni mezzo per controperare a’ suoi scopi". Queste righe mostrano quali fossero le minacce che circolavano e quale il clima tra la gente: un clima intimidatorio e di estrema tensione di tutte la parti in causa (Italia, Austria e Francia), chi ne faceva le spese era la popolazione civile, trattata come merce di scambio di cui si ignoravano volutamente quali fossero le vere aspirazioni.

Si tentò di far pressione sulle truppe ungheresi operanti in Veneto e sulle truppe venete operanti in Prussia, si incitarono le stesse a sollevarsi contro l’Austria ma ciò non ebbe alcun effetto: questa è un’altra spia che indica che i governi ben poco sapevano cosa pensasse il popolo; i soldati Veneti che tornarono in Italia furono solo quelli presi prigionieri dai prussiani.

L’Italia dovette cedere definitivamente alle pretese Prussiane, Austriache e Francesi dopo aver perso la Battaglia navale di Lissa, la perse con ignominia, come perse la Battaglia terrestre di Custoza. Le condizioni poste all’Italia furono lo sgombero del Trentino e della Venezia Giulia, e la cessione della Venezia ad un commissario francese, che doveva consegnarla alle autorità venete, subordinatamente al consenso delle popolazioni, chiamate ad esprimere plebiscitariamente la loro volontà. Il 7 ottobre esce un decreto reale che invitava le popolazioni al plebiscito, questo esautorava di fatto la Francia dal ruolo che la Pace di Vienna le aveva dato (garante della regolarità del plebiscito); Solitro riporta che a riguardo del Plebiscito c’erano varie scuole di pensiero: "…superfluità dopo le molteplici manifestazioni della volontà dei Veneti, nel ’48 e nel ’59; altri una inutile concessione all’ingerenza francese; altri infine un’incognita pericolosa da doversi evitare ad ogni costo." A Ricasoli pervenivano informative che sostenevano che sul plebiscito c’era l’ombra dei preti e contadini, di chi lavorava per l’Arciduca Massimiliano, di chi parlava dell’utilità di un’autonomia veneta, e di chi istigava all’astensione.

Sebastiano Tecchio, nominato dall’Italia presidente della corte d’appello di Venezia il 27 ottobre, proclama i risultati del Plebiscito, che nonostante tutte le perplessità ebbe un risultato mai visto prima in nessun altro plebiscito: 641.757 si, 69 no, 366 nulli.

I risultati del Plebiscito furono consegnati nelle mani del Re a Torino, nonostante la capitale fosse Firenze, e c’è chi scrisse che si volle questo per "serotina vanità del Re savoiardo, e per affermare contro il concetto della cresciuta italianità la nuova conquista regia"

Subito dopo l’annessione ci furono molte rimostranze da parte dei Veneti, che videro che l’unità aveva prodotto più illusioni che dati di fatto, la risposta fu che questo sfogo era di chi aveva perso dei benefici e lucri passando al nuovo governo, e che queste rimostranze non appartenevano al popolo (lo stesso popolo che qualche mese prima era stato accusato di essere succube dei preti).

Concludendo questa carrellata di fatti riportati dal Solitro sul comportamento dei veneti nel 1866 da me selezionati in modo da evitare apologie nazionaliste di sorta, voglio ulteriormente evidenziare come i 69 no siano una forzatura storica frutto evidentemente di numerosi brogli elettorali. Gli stessi che appoggiarono l’unità del Veneto all’Italia ben presto se ne dissero pentiti, ecco quanto è riportato dai giornali del 1867 a proposito di nomine pubbliche: "Che si crede che il Veneto sia una vallata Savojarda di cretini, o la Beozia del Regno? No non è così che si tratta la povera Venezia, condannata a raccogliere le miche dell’impieghi, mentre a sopportato anche troppo la parte da bestia da soma sotto l’Austria. Abbiamo anche qui gente che può sostenere una prefettura, un dicastero di finanza, una direzione delle poste, una questura, e si rimandino questi favoriti ai loro seggi anche troppo ben rimeritati per le opipare provvigioni che porteranno seco di straordinarie panciali".