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LA FORZA SPIRITUALE DELL’EMIGRANTE

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http://www.regione.veneto.it/Venetinelmondo/NewsView.aspx?idNews=223

Emigrare è sempre una faccenda alquanto dura e complicata. Piuttosto affascinante, certo, in alcuni casi, assai esotica, quando lo si fa per scelta. Molte volte, invece, può rivelarsi un’esperienza spaventosa, crudele, immeritevole. Proprio così accade a molti popoli in questa epoca, ma, la stessa situazione si è presentata anche per la nostra gente veneta, poco più di un secolo fa.
Le grandi guerre, il disorientamento politico e quindi sociale, la crisi economica, la mancanza di prospettive future, hanno operato da calamita per molte famiglie, che si sono viste in pericolo di sopravvivenza, e hanno estrapolato da se stesse una grande forza d’animo e un nobile sentimento di coraggio, che ha fatto sì che si spostassero, definitivamente, non solo di stato, bensì di continente.

Partiti senza risorse, disperati nel cuore e nell’anima, in condizioni spesso disumane e ad alto rischio di vita, lasciando parte dei familiari nella terra d’origine, in tantissimi hanno deciso di emigrare verso lidi lontani, affrontando con umiltà lunghi mesi di viaggio in imbarcazioni improbabili, fatiscenti, antigieniche, con la speranza di approdare, chissà, in una terra che potesse ancora offrire loro un’alternativa di vita, di decenza, in una parola, di dignità. Sono susseguiti poi anni di intenso lavoro, di adattamento, quando la nostalgia di casa, senza contatti, nessuna possibilità di comunicazione, lacerava di dolore, spegneva lo spirito, raffreddava ogni sorta di sentimento naturale e umano. I nostri compatrioti, tuttavia, sono riusciti a stringere i denti, a non alzare la testa, per darsi da fare, e costruirsi un mondo nuovo, a loro dimensione, che potesse permettere di vivere, semplicemente.
In tanta asprezza, quando si sta male, si soffre, si trova sostegno, forza, nel calore domestico, nella semplicità dei legami e degli affetti, nella spiritualità, e questi aspetti si affiancano all’uomo per dargli lo stimolo a continuare, per non mollare la presa, e crederci. È così che le tradizioni, gli usi e costumi, la religione, tutto ciò che appartiene al proprio luogo d’origine, svolgono un ruolo di fondamentale importanza all’interno delle realtà migratorie.
I veneti, in particolare, si sono portati con sé tutto quello che di veneto si potesse traslatare. Primi tra tutti, i segreti culinari e le ricette, i balli folcloristici, i canti popolari, i proverbi e i detti tipici, insomma, la regione stessa rappresentata per eccellenza. Cantare assieme, ballare in allegria, tramandare sante verità che potessero rincuorare il più scoraggiato degli animi, rappresentava per loro un mezzo e un fine per ritrovare una certa pace interiore, una serenità spirituale che permettesse loro di rimanere uniti, nel bene e nel male. Così, questo intruglio, questa pozione culturale fatalmente magica, viene trapiantata e tramandata con una forza indiscreta, radicale, com’è quella vitale, accompagnando questi individui non solo fisicamente, ma anche mentalmente, giocando sulla leggerezza, distraendoli, ottenendo come risultato lo stimolo per andare avanti, donando armonia, unione, spensieratezza.
Usi e costumi maggiormente eclatanti sono testimoniati dal forte e consueto utilizzo di canzoni regionali, caratteristica insita tra i veneti. Tra quelli che sono resistiti nel corso del tempo, delle generazioni e sono rimasti vivi tuttora si ricordano quelli che evocano il lungo periodo della guerra, con le immancabili canzoni “Bella ciao”, “Quel mazzolin di fiori” e ancora “Vecchio scarpone”. Tra i proverbi, invece, si spazia dagli argomenti più disparati, come quelli classici sul tempo meteorologico con “cielo a pecorelle, acqua a catinelle” o “rosso de sera bel tempo se spera”. Non sono da meno altri detti sull’amore e il matrimonio, dai più scanzonati “no se poe avere la bote piena e la femena imbriaga” oppure “l’amore fa passare el tempo, e el tempo fa passare l’amore”, a quelli più veritieri come “chi dispressa compra”. Altri ancora difendono a spada tratta la propria appartenenza a una bandiera cittadina all’interno della regione: “pan padovan, vini visentini, tripe trevisane e donne veneziane” e ancora “veneziani gran signori, padovani gran dottori, vicentini magnagatti e veronesi tutti matti”. Infine, ma non per ordine di importanza, gli immancabili e preziosi consigli sulla tradizione culinaria, con riferimento alla perseveranza lavorativa locale, con “coe ciacoe no se fa fritoe” e “e bone paroe no impiena a pansa”, o che invitano a uno stile di vita da sempre invidiato da generazioni di lavoratori, soprattutto quando tale lavoro coincide con l’unica e ultima alternativa e speranza di vita, come “scarpa larga e goto pien, ciapa e robe come che e vien”.
Ecco qui, questi detti tradizionali, allegri e leggeri, racchiudono in sé vere perle di saggezza, che profilano quello che è il popolo veneto in essenza, venendo ricordati anche oggigiorno, pur acquisendo ora un carattere più scanzonato e nostalgico che rigoroso com’era un tempo.
Anche la fede, dal canto suo, ha funzionato da forte antidoto contro il male e il dolore, l’amarezza e il senso di abbandono. L’uomo, per genesi, possiede in sé la consapevolezza della celestialità, una sorta di coscienza religiosa, creando nel suo intimo un bisogno metafisico che lo fa sentire protetto dalle sventure e lo rende sensibile all’idea della salvazione. Il proprio credo, infatti, è un continuo lavoro di riflessione e inconscia ricerca verso la realtà dell’esistenza umana, la quale contiene in sé l’attitudine di incrementare la coscienza della propria identità e ravvivare la speranza nella critica dimensione esistenziale in cui ci si trova rispetto alla globalità. La religione ha significato l’aiuto provvidenziale, dettaglio imprescindibile, poiché crea comunità e quindi conforto, dà risposta a mille domande, una spiegazione a tanti dubbi, come se tutto fosse parte di un disegno perfetto, una logica divina, alla quale è bene credere e su cui vale la pena riporre fiducia e prospettiva. I culti divengono allora influenti e ascendenti sui connazionali che, pur umiliati dalla sconfitta, si calano nelle promesse divine con totale devozione e ammirevole dedizione.
Tradizione e fede hanno in comune il fatto di essere entrambe atemporali, nonché insostituibili sostegni morali e mentali, che, unite, si trasformano in una grande forza per l’uomo, anche nei segmenti storici più terribili. Fungono da traino nei momenti di avversità, da compagnia nelle fasi più leggere dell’esistenza e, da sempre, rappresentano il punto di appoggio, di equilibrio e di certezza per la psiche. È per questo che merita ricordarli e tenerli presenti non solo con tenerezza e affetto, ma anche con orgoglio e fierezza, perché, appunto, fanno anch’essi parte dell’elaborato processo kantiano a cui si rifà l’uomo, e forse, ne sono i motori, affinché quest’energia sia rimasta attiva e vivace in modo costante fino ad oggi.

dott.ssa Giorgia Miazzo
giorgiamiazzo@gmail.com