Una lingua non è solo uno strumento di comunicazione. Una lingua è anche un’identità, e forse quella che insieme al background fisico-territoriale di più pregiudica ed influenza la visione del Mondo che un popolo sviluppa nella Storia. La lingua non è semplice e diretta traduzione in simboli di un pensiero, altrimenti non si spiegherebbe la profonda variabilità della lingua stessa, nonostante la lingua sia fatta di simboli sonori (nella declinazione orale) e simboli grafici (sul piano dello scritto) tutti prodotti per via orale, ascoltati dall’udito, scritti da mani, e letti da occhi umani.
Un esempio di come una lingua possa segnare le sorti di un popolo e forgiarne la mentalità, è data dal raffronto tra greco e latino “classici”. Il greco, infatti, era dotato dell’articolo determinativo, mentre il latino ne era sprovvisto. Ciò ha “comportato” che la filosofia -con la sua tendenza categorizzante- sia nata ad Atene, e non a Roma. Un possibile motivo? In Greco si poteva differenziare nettamente l’“esempio” di cane (un cane) dal “concetto” di cane (il cane). Nel latino si dovette far ricorso agli aggettivi dimostrativi per supplire a questo vuoto “filosofico” della lingua (gli articoli determinativi in italiano e in veneto “derivano” da questo ricorso: ille canis = quel cane > il cane / el can; illa pila = quella palla > la palla / ła bała).
Inoltre, ogni lingua -o meglio: ogni popolo, nella sua lingua- ha le proprie espressioni idiomatiche, segno di una identità autonoma innanzitutto, ma anche sintomo di una precisa visione del Mondo e della vita.
Un esempio storico e verificabile che la lingua non è un elemento “accessorio” all’indipendentismo è l’importante identificazione dei Veneti della Diaspora con la loro lingua madre, che ancor oggi parlano -dopo oltre un secolo- ed insegnano ai loro discendenti: questo dimostra che la lingua è uno strumento identitario di un Popolo, non un “elemento” del territorio, o per scolastiche rassegne di cultura “locale”.
4. LINGUA o NON LINGUA? DIALETTI o VARIANTI?
La “lingua veneta” in sé non esiste, nel senso che non è mai stata codificata né nella grammatica, né nella grafia. Tuttavia, -per fortuna- anche ciò che non è codificato esiste, e molte sono le prove che un “parlar veneto” esiste: il semplice fatto che tra veneti ci si riesca a parlare (anche se sono presenti evidenti diversità di pronuncia -e grafia- e di grammatica); il fatto che un veneto moderno (soprattutto un bellunese-feltrino) possa comprendere -senza grosso sforzo- il “Ritmo Bellunese” (di un secolo precedente alla Divina Commedia di Dante); il fatto che un “veneto patrio” ed un “veneto della diaspora” si comprendano senza alcuna difficoltà, tranne che per qualche “dinosauro” lessicale. Questo sono solo alcuni dei possibili esempi.
L’affermazione che la “lingua veneta” non esiste è facilmente travisabile. Tuttavia, il motivo per cui ciò è da precisare è che se definissimo “cos’è la lingua veneta” dovremmo poi definire senza dubbio “le varianti”, perché ci sono innegabili e macroscopiche differenze nelle declinazioni territoriali della lingua (come in tutte le lingue del resto!). Tuttavia, dire che sono macroscopiche, non significa che siano insormontabili. Semplicemente ciò significa che ci sono alcune aree in cui accadono deter
minati fenomeni linguistici (es. aumento della frequenza di caduta della vocale finale nel bellunese; es. progressiva perdita di purezza consonantica della L -verso la vocale E- procedendo dai monti, per le pianure, verso la costa; es. uso della Z-sorda (suono dell’it. spaZio) nelle zone costiere, nel rodigino e nel trentino; es. uso dell’interdentale sorda TH in passato molto diffuso, ora conservato solo nel bellunese-feltrino-sinistraPiave; e simili).
Tramite l’accostamento di tali fenomeni linguistici, in passato si sono individuate delle c.d. “varianti” della lingua, sempre nella necessità di adeguare la figura ideale della “lingua veneta” alla realtà fattuale della grande variabilità linguistica, un po’ come fosse il famoso “regolo di Lesbo”.
Tuttavia gli strenui tentativi d’alcuni di ascrivere il parlare di un comune di “frontiera linguistica” a questa o a quella “variante”, dimostrano la sclerosi di questo schema. Altri, con enorme miopia politica ma soprattutto culturale, si sono permessi di “scegliere” una delle c.d. varianti, ed ergerla a “lingua di tutti”. Costoro non si sono accorti del cortocircuito logico congenito alla loro tesi, poiché partendo dall’idea di “una ed indivisibile lingua veneta” -parafrasando l’“adorata” italica costituzione-, scendendo ad individuare delle “varianti” e risalendo poi ad imporre -per comodità, dicono- una variante come “lingua di tutti”, si pongono in realtà di fronte a due “lingue venete”: una che “dovrebbe essere” tale -condizionale presente-, e una che lo “dovrà essere” -indicativo futuro-. Fin qui la miopia culturale. Ma da qui anche miopia politica, perché ciò significa relegare a “dialetti” tutte le altre varianti. Ma poi: detto -e fatto- questo, con che faccia si potrebbe continuare a biasimare ed attaccare la scelta dei governi del Regno d’Italia che tanta opera vollero porre nell’imporre il toscano come “lingua di tutti”, che nel 1861 era conosciuta solo dal 2,4% della gente -e tra l’altro solo come lingua delle grandi occasioni, non certo come lingua di vita e comunicazione-?
Gli accenni alle “varianti” possono essere utili in senso molto lato, soprattutto nei casi in cui si tratta di richiamare alla mente del lettore un certo modo di pronunciare, per es. quando si confronti la lettura della Ł -elle semivocalica/semiconsonantica- “alla costiera” (= quasi una E pura) o “alla bellunese” (= L pura).
Ecco quindi perché è inutile -se non anzi dannoso- calare dall’alto delle maglie rigide per stringere la realtà in schemi che verranno rotti presto, in quanto le lingue sono in costante e dinamica sedimentazione e smottamento, poiché sono vive, come quelli che le usano; e non dimentichiamo che la lingua è uno strumento a servizio di un Popolo, che quel Popolo per secoli ha sia migliorato che custodito, usandola.
5.GRAFIA ad un BIVIO: AUTARCHIA o COORDINAZIONE INTERNAZIONALE?
La prima cosa da precisare è che l’ortografia (cioè il modo corretto, “ortodosso” -appunto- di scrivere) è una disciplina storica, cioè è prettamente convenzionale, in una commistione di necessità e scelte che stanno tra la tradizione da conservare ed il futuro da costruire.
A scanso di equivoci, precisiamo che autarchia (dal gr. autos = esso stesso; archè = principio; autos+archè = esso stesso fa principio) significa “far principio a sé stessi”, cioè essere totalmente autonomi ed indipendenti. In alcune proposte grafiche per il veneto, questa “indipendenza” della grafia rispetto ai sistemi grafici “in vigore” per altre lingue, viene definita come una virtù essenziale, anzi costitutiva della proposta grafica. Ciò probabilmente è dettato dall’ennesima declinazione del “complesso del sottomesso” (fenomeno cui è dedicato in questa introduzione un paragrafo esplicativo; par. 8), oppure più semplicemente da una traslazione del “desiderio di indipendenza politica” in una proposta di “indipendenza grafico-linguistica”.
Tuttavia, tanto l’indipendenza politica significa sacrosanto diritto ad autodeterminarsi, quanto una cieca indipendenza della grafia di una lingua porta a isolazionismo, devitalizzazione, rattrappimento, morte.
Tra l’altro, queste visioni isolazioniste sulla lingua sono state spesso figlie naturali di un certo nazionalismo (a partire dal Cinquecento, secolo in cui si sono affermati i c.d. “Stati nazionali”), e hanno portato lingue dello stesso ceppo e con caratteristiche simili a differenziare in maniera assurda le grafie proposte per lo stesso fonema. E’ il caso dopo cinquecento anni di proseguire sulla stessa falsariga?
Prendiamo ad esempio il suono che in italiano si è scelto di scrivere come GN:
italiano baGNo
francese champaGNe (nota regione)
spagnolo niÑa (bambina)
galiziano leÑa (legna)
portoghese piraNHa (noto pesce)
occitano baNH (bagno)
catalano CataluNYa (Catalogna)
[inglese oNIon (cipolla)]
[croato koNJ (cavallo)]
> siamo quindi di fronte a 6 diversi grafemi (gn, ñ, nh, ny, ni, nj) per lo stesso identico fonema.
Una grafia indipendente -o sedicente tale- del veneto dovrà quindi inserirsi in questo arcipelago di isolazionisti -che già è una babele- con un’altra, nuova, inedita escrescenza grafica del medesimo fonema?
Forse è il caso di fare “di necessità virtù”, ossia -visto che il veneto è forse l’ultima lingua storica d’Europa a non avere ancora una codificazione certa (buone o cattive che siano le altre)- approfittare dell’occasione che la Storia ci ha dato di codificare una lingua nel terzo millennio, proponendo una grafia all’avanguardia che -seguendo principi di semplificazione, “fonetizzazione” (vedi paragrafo successivo) e coordinamento interlinguistico- permetta di fare il primo passo verso una grafia condivisa da più lingue -probabilmente dello stesso ceppo- che vogliano aderirvi (vedi paragrafo 10).
Un fondamentale passo in questo senso è stato compiuto nel
settembre 1888, quando l’Associazione Fonetica Internazionale ha messo a punto una Dichiarazione d’intenti -per il progetto di un alfabeto fonetico internazionale (IPA: International Phonetic Alphabet)- che riproduciamo di seguito:
1. ogni segno dovrebbe avere il suo proprio suono distintivo;
2. lo stesso segno dovrebbe essere usato per lo stesso suono in tutte le lingue;
3. poiché molte classiche lettere romane dovrebbero essere usate il più possibile, l’uso di nuove lettere dovrebbe essere minimo;
4. l’uso internazionale dovrebbe decidere il suono corrispondente ad ogni segno;
5. l’apparenza delle nuove lettere dovrebbe suggerire il suono che rappresentano;
6. i diacritici [segni aggiunti a lettere per variarne il suono. NdR] dovrebbero essere evitati quando possibile, poiché sono complicati da scrivere e difficili da vedere.
Non è un caso che la prima commissione -di fondazione- del progetto fosse composta da linguisti inglesi e francesi, a comprovare quanto l’istanza di fonetizzazione dell’ortografia sia molto sentita presso gli studiosi di queste due lingue, di cui è nota la lontananza tra suoni pronunciati e grafemi scritti (non per nulla gli anglofoni sono costretti a spendere prezioso tempo nelle scuole per far imparare ai bambini lo spelling delle parole, con tanto di concorsi a premi per i più bravi).
Fortunatamente, le lingue neolatine mediterranee sono caratterizzate da una forte corrispondenza tra grafemi e fonemi: i linguisti le definiscono lingue con “ortografie fonemiche”.
Si tratta indicativamente delle seguenti lingue (grossomodo tutte quelle dell’area italica, dell’area iberica e della bassa Francia, cioè Provenza, Linguadoca, Aquitania,…) -circa da ovest verso est- : galiziano; asturiano; spagnolo; alto-aragonese; catalano; occitano; guascone; gallo-italico (lombardo, piemontese, ligure, emiliano, romagnolo); ladino; veneto; friulano; italiano centrale (toscano, umbro, alto laziale); corso; sassarese; mediano di sud-est (basso laziale, basso marchigiano); basso italiano (napoletano, molisano, lucano, pugliese); estremo italiano (siciliano, calabrese, basso pugliese); sardo.
La lingua veneta ha quindi l’imperdibile possibilità di essere pioniera di un processo di coordinamento delle grafie di una ventina di lingue della stessa famiglia, che dai linguisti sono considerate essere in un intreccio linguistico -definito “continuum dialettale”- che si sviluppa su un territorio che va dalla Lusitania alla Provenza, dall’Aquitania al Friuli, dal Piemonte alla Sicilia.
Inoltre, poiché questa grafia ha per vocazione e caratteristica la univoca traslazione dei suoni in scritti (e viceversa) essa potrebbe essere proficuamente utilizzata sul piano internazionale per “tradurre” univocamente in alfabeto latino parole di lingue che utilizzano altri alfabeti (es. alfabeto greco moderno; alfabeto cirillico) o altri sistemi di scrittura (es. ideogrammi cinesi; ideogrammi giapponesi), visto che attualmente si deve per forza scegliere la grafia di una certa lingua su cui basarsi.
6. GRAFIA FONEMICA: UN SUONO, UN SEGNO
I fenomeni linguistici variano e s’intrecciano sul territorio, e pertanto è necessario -in prima battuta- individuare dei grafemi che “traslino” nello scritto i vari suoni pronunciati. In una grafia fonemica -o comunque che pretenda di essere tale-, la corrispondenza tra “detto” e “scritto” -cioè tra fonema (dal gr. phonos = suono) e grafema (dal gr. graphos = scritto)- deve essere biunivoca: ciò significa non solo che ad ogni grafema corrisponde uno ed un solo fonema, ma anche viceversa che ogni fonema venga traslitterato in una sola forma. Per esempio il suono interdentale sordo del bellunese (cfr. il TH inglese di “THink”) non può avere lo stesso grafema della Z-sorda (quella dell’it. spaZio) tipica della costa, né questi possono essere usati per traslitterare la S-sorda usata nel veneto centrale: sono 3 suoni diversi, e meritano quindi 3 grafemi diversi, anche se sono suoni corrispondenti, nel senso che quando un bellunese usa l’interdentale, il costiero impiega la Z-sorda, mentre il centrale ripiega sulla classica S-sorda. Per le consonanti C e G dobbiamo però derogare a questa logica di biunivocità, ma ne parleremo approfonditamente più avanti.
Una grafia fonemica ha il pregio di rendere una lingua pronunciabile correttamente anche da chi non abbia mai nemmeno sentito certe parole, o addirittura che non conosca tale lingua. Pensiamo a quant’è più facile pronunciare correttamente il tedesco (che ha una grafia fonemica, pur con qualche “impurità”) anche se non si comprende cosa si sta dicendo; pensiamo invece quant’è difficile pronunciare l’inglese, o peggio ancora il francese, pur magari capendo esattamente il contenuto che si sta leggendo, ma nell’impossibilità di reperire il giusto suono nella babele delle corrispondenze incrociate tra fonemi e grafemi: il lettore è costretto ad imparare “a memoria” le pronunce (es. ingl. “CHest-aCHe” = dolore al petto, ha due diverse pronunce nella stessa parola del grafema CH: la prima è una C-dolce, la seconda una C-dura. Leggi: /cèst-eik/).
La necessità è quindi coordinare l’uso univoco dei grafemi, in modo tale che la singola “variante”abbia i “suoi” suoni tipici -e i corrispondenti grafemi tipici- inconfondibili e non usati per altri suoni.
7. SCOPO e SIGNIFICATO di una GRAFIA “REGOLATA”
Ciò che vuole proporre questa grafia “regolata” è poi il coordinamento dei vari fenomeni linguistici presenti sul territorio venetofono, portando ad un termine più sistematico il lavoro già approntato con una certa dose di lucidità dal MGX di Michele Brunelli nelle note grafiche introduttive -edizione del 2007-, che è possibile anche grazie al lavoro di ricognizione fatto dalla GVU nel 1995, che però è troppo intricato ed aleatorio per essere applicato nella pratica (sono proposti diversi grafemi “a scelta” per lo stesso suono, con vasto uso di complessanti segni diacritici, e ciò ingenera confusione nella comprensione e nell’uso).
La “grafia regolata” non è quindi un lavoro di superfetazione linguistica, nel senso che non è la creazione di un “esperanto veneto” cioè una lingua di commistione, che è tanto “di tutti” quanto “di nessuno”. Si tratta piuttosto di un lavoro di coordinamento, che permetta ai veneti di avere un modo di scrivere la loro lingua, che sia usato da tutti, sia per produrre che per recepire scritti. Ciò è possibile introducendo il concetto di “nodo grafico”: è un concetto non nuovo, ma mai “messo a sistema” in un panorama linguistico univoco.
L’esempio -che sarà classico per descrivere questo concetto- è quello del “nodo grafico” ZS. Esso non ha una sua valenza fonemica propria ed autonoma, ma è appunto un “nodo”, cioè un “grafema di sintesi”: nella grafia “regolata” (d’ora in poi GR), esso riduce ad unità grafica i tre grafemi tipici che si trovano in corrispondenza tra loro all’interno di determinate parole, nelle diverse “varianti”. Per esempio:
 
; it. nazione = naSion (S-sorda; veneto centrale)
it. nazione = naTHion (interd. sorda; veneto bellunese)
it. nazione = naZHion (Z-sorda; veneto costiero)
it. nazione = naZSion > veneto regolato
per formule: ZS = ZH + TH + S.
Tutti i venetofoni scriveranno naZSion, ma ognuno leggerà la propria, caratteristica pronuncia. Questo accorgimento dei “grafemi di sintesi” o “nodi grafici” consente 3 importantissimi traguardi:
- possibilità di unificazione degli scritti di tutte le “varianti” in un unico modo grafico regolato;
- poiché si tratta di una “possibilità” di unificazione, significa che rimane aperta la via della conservazione della grafia fonetica di ogni singola “variante”: un bellunese -a seconda della propria volontà, del contesto, dello scopo perseguito, e simili- potrà autonomamente decidere se scrivere in nella Grafia Regolata (GR; scriverà nazsion) o nella Grafia Fonetica Locale (GFL; scriverà nathion), per esempio se necessita di precisare determinati suoni a fini poetici;
- nelle scuole, nei manuali, nei testi di didattica, e nelle pubblicazioni a tiratura nazionale, verrà presumibilmente usata la GR. Nell’insegnamento, si inizierà ad insegnare la scrittura con la GR, introducendo poi gradualmente lo studente a saper declinare i “nodi grafici” nei vari fenomeni linguistici locali, e presentando infine anche le declinazioni di altre “varianti”. Ciò significa che -per esempio- in una scuola del Bassanese si insegnerà innanzitutto la GR, si spiegherà poi la lettura “bassanese” del nodo grafico, infine -in una fase più matura- si presenteranno anche le altre declinazioni che sono state sintetizzate in tale nodo. Questo sistema ha l’enorme pregio di permettere ad ogni venetofono di familiarizzare con tutte le “varianti”, e potenzialmente di conoscerle e parlarle tutte con facilità, sapendosi calare quasi istantaneamente nel “clima fonetico” di una certa zona. Se infatti un alto-padovano nella sua “variante” è portato a scrivere “sensasion”, gli sarà difficile identificare immediatamente quale delle 3 S (che per lui sono esattamente identiche) è in feltrino una TH. Con l’accorgimento dei nodi grafici -insegnati e resi “naturali” fin dall’infanzia- gli sarà insegnato fin dall’età scolare che in GR si scrive “sensazsion”, che l’alto-padovano lo legge e lo sente “sensasion”, che un feltrino lo dirà “sensathion”. In questo modo uno stesso testo può essere letto anche dalla stessa persona in tanti plurimi diversi modi quante sono le diverse declinazioni possibili dei nodi grafici; ovviamente, ognuno avrà una pronuncia che gli è più consona e naturale di altre.
8. il “COMPLESSO del SOTTOMESSO”
E’ un disturbo patologico di cui il venetismo soffre da sempre, e che ne ha frenato e condizionato ogni singolo passo, portando spesso -ma non sempre, per fortuna- a scelte assurde, inspiegabili, infruttifere, e pure indifendibili.
Questo “complesso” -come ogni patologia che si rispetti- colpisce molteplici ambiti di applicazione dell’intelletto (teoretico) e dell’agire (pratico) dei veneti che fanno politica (cioè che si adoperano come meglio credono per il benessere della loro comunità, della loro “polis” appunto).
Diversamente dal “complesso di Stoccolma” (quando gli ostaggi iniziano ad amare i propri sequestratori), nel caso dei Veneti, al profondo odio ed al non riconoscimento -tacito od esplicito- dell’autorità del soverchiante italiano si accompagna un’involontaria, subdola, insana accettazione dello status di sottomissione in cui versano il Popolo Veneto, la sua Storia, la sua millenaria Cultura. Non solo: ogni pretesa italiana soprattutto sul piano culturale, viene tacitamente accettata, in quanto l’operare di molti del venetismo continua a dirigersi sempre verso nuovi lidi, senza mai consolidare, difendere quanto già conquistato, e lasciando sguarnite le più durevoli roccaforti del bagaglio identitario veneto.
Così, se lo Stato italiano crea la “Regione Veneto”, il venetismo preferisce gettare dalla finestra il termine “Veneto” -come nome del territorio- ed inventarsi un’improbabile “Venetia”, o simili.
Se la cricca partitica italiana fa abuso del Nostro Leone Marciano, sugli stemmi delle associazioni e dei partiti tende a sparire il Leone, e compaiono simboli tra i più impensabili (fino alle foglie di fico della vergogna), e s’arriva a proporre di sbarazzarsi del millenario simbolo dei Veneti, perché ormai “vecchio”.
Se gli italofoni pronunciano la Z del veneto (S sonora) come la loro Z di spaZio (Z-sorda; come nel tedesco “Zeit”), i veneti devono cambiare la loro toponomastica e la loro onomastica secolari per adeguarsi bellamente al furto con scempio grafico-fonetico compiuto dall’italiano sul veneto? Dobbiamo rinunciare ai nostri veri cognomi? Ai secolari nomi delle nostre città? Perché sostituirla con la X? Gli Zorzi, gli Zanin, gli Zonta saranno Xorxi, Xanin, Xonta? Non sembrano forse cognomi più tipici cinesi che veneti? Zara diventerà Xara (recente modello di automobile)? Bolxan sarà un comune vicentino o un nuovo detersivo?
9. il VENETO nel CONTESTO LINGUISTICO EUROPEO
Presso molti gruppi d’opinione del venetismo (collegandoci al precedente paragrafo sul “complesso del sottomesso”), la lingua veneta viene allontanata anche forzatamente dall’orbita del latino classico -e contestualmente anche del greco-, come se ciò costituisse impurezza della lingua, o sudditanza a chi sa quale padrone. Questa “scelta” pare dettata da esigenze politiche di distacco dall’Italia che -soprattutto nella sua declinazione fascista- si è data arie “imperiali” quantomai ridicole, relegando a sottoculture “barbariche” tutte le manifestazioni culturali non statalizzate, o non fungenti all’edificazione del vergognoso artificio dell’italianità neo-romana. Tuttavia, negando l’evidente rapporto della lingua veneta col latino, sì dà in qualche modo credito alle assurde pretese dell’Italietta fascista, che prosegue nella repubblicana “certezza” -ancora sibilante tra le
bocche e le orecchie degli italiani- di essere eredi delle glorie di Roma. Riappropriandoci del sano e giusto rapporto tra le lingue moderne ed il latino -con i necessari e liberi studi che ancora si devono fare, visti gli ottocenteschi interventi della cultura di Stato-, riusciremo forse a dare il giusto ridicolo a queste folli teorie neo-imperialiste.
Una delle prime ricerche da fare, riguarda un po’ tutte le lingue “locali” presenti prima dell’approdo della conquista romana (o dell’alleanza alla pari -foedus aequum-, nel caso dei paleo-Veneti): si riconoscono forti influenze dell’etrusco sulla formazione del vocabolario e della sintassi del latino pre-classico, ma a tutte le altre lingue pre-romane di cui abbiamo evidenze dagli studi sulla paleolinguistica -tra cui il Venetico, lingua dei Venetici, o paleo-Veneti- nulla è riconosciuto nell’influenza del latino. Eppure moltissimi sono stati i poeti e pure gli storici provenienti dalla regione che Augusto denominò “Regio Decima: Venetia et Histria”, Livio e Virgilio, su tutti.
Poiché chi scrive non ha né le competenze, né la volontà, né il diritto di intervenire su questi delicati argomenti di “paleolinguistica”, poiché alla ricerca non si applicano -e non si devono applicare- criteri di scelta politica, si è deciso di fare un passo indietro nella questione del rapporto tra il “sostrato indoeuropeo” (particolarmente in discussione nei tempi presenti) la lingua venetica, la lingua greca, la lingua latina, e la lingua veneta moderna, lasciando il campo sgombero alla libera ricerca dei moltissimi validi studiosi che hanno voluto, vogliono e vorranno donare il sacrificio del loro lavoro e la luce della loro onestà intellettuale a questi importanti nodi storico-linguistici.
Tuttavia -ancora una volta per comodità- sarebbe assurdo togliersi la possibilità di fare riferimenti al greco o al latino -cosa da cui invece molti si guardano, per i motivi politici esposti sopra-: è infatti utilissimo rifarsi al lessico di tali lingue, anche e soprattutto con intenti etimologici. Usualmente, siamo stati abituati dalla cultura imposta italiana alla locuzione “deriva dal latino” o “deriva dal greco”, come se tutto e solo fosse dovuto a tali due lingue, come se nella memoria storica di un popolo -memoria che infondo si chiama “lingua”- si potesse premere il pulsante “reset”, cancellando secoli di evoluzioni e assunzioni linguistiche. Così sarebbe accaduto secondo alcuni linguisti -di dubbia onestà intellettuale-, e cioè i Venetici -e così tutti gli altri popoli entrati in contatto coi Romani- si sarebbero immediatamente spogliati della loro millenaria sedimentazione linguistica inchinandosi di fronte ad una perfezione onnicomprensiva -sa di mito, più che di studio- che il latino avrebbe avuto in sé.
C’è da dire che, se anche così fosse avvenuto, questo sarebbe stato possibile solamente se ci fosse stata una certa substanziale comunanza tra il venetico ed il latino, perlomeno a livello di lessico. Da un punto di vista prettamente ipotetico, probabilmente le c.d. radici indoeuropee erano comuni o accomunabili a livello di lessico tra venetico e latino -ed etrusco, il cui alfabeto era simile a quello venetico-, ma l’elaborazione sintattica e morfologica del latino era più avanzata, più matura, o più condivisibile, e si è imposta per questioni di “merito”, perché che sia stata imposta con le armi o con la propaganda, nell’ante-Cristo è assai improbabile, visto che solo con 50 anni di bombardamento televisivo l’Italia è riuscita ad insegnare ai veneti l’italiano, senza nemmeno ottenere -grazie a dio- che esso si sostituisse al veneto.
Ribadendo quindi la totale ipoteticità di tale visione, e ricordando gli sforzi politici fatti per disistimare tutto ciò che latino o “latinabile” non era o non è, riteniamo giusto rifiutare la canonica locuzione “deriva dal latino”, o simili, e nell’attesa che i giusti studi riempiano questo vuoto culturale non scriveremo “can; dal lat. canis”, ma ci limiteremo a proporre un “confronta” tra lemmi di lingue “alla pari”: “can; cfr. lat. canis = cane” così come “piron; cfr. greco perein = infilzare”, o come “dì ‘vanti; cfr. francese avant = dopo”, o come “butiro; cfr. ingl. butter = burro”.
Sulla scia di questo rinnovato rispetto per ogni lingua passata e presente, s’inserisce anche la volontà di “sacrificare” (negli scritti) certe peculiari “venetizzazioni”di termini stranieri, che spesso si verificano in campi come l’onomastica, la tecnologia, la gastronomia, la toponomastica. Al bando quindi scritture come “Oropa” (meglio “Europa”, come Europe) o come conpiuter o conputadore (meglio “computer”): se dall’estero proviene un certo prodotto, una certa idea, un certo nome di luogo o persona, lo si preservi tale, evitando fenomeni come le tipiche italianizzazioni fasciste e dando il giusto rispetto alle idee, alle cose, ai nomi altrui. Solo così i nostri biscotti “Załeti” non li vedremo scritti “Yellowies”.
10. proposta di CONVENZIONE GRAFICA INTERNAZIONALE (CO.GR.I.)
Nell’analisi delle problematiche grafiche del veneto da cui è scaturita la ricerca di possibili soluzioni nelle scelte già operate nelle passate codificazione di altre lingue (quali l’italiano, lo spagnolo, il portoghese…), ci si è imbattuti in problematiche simili (a volte più lenite, spesso più accentuate) anche nelle lingue già codificate. Emblematico è il caso del suono che in italiano si scrive GN, come spiegato nel paragrafo 5.
Pertanto, costruendo una grafia fonemica per il veneto, ci si è accorti che essa risolveva molti problemi -o meglio: confusioni- che il veneto avrebbe potuto condividere con altre lingue neolatine: dall’italiano al portoghese, dall’occitano allo spagnolo (castigliano), dal catalano al siciliano al sardo…
Naturalmente, il veneto non ha tutti i suoni impiegati da altre lingue (per esempio in veneto non esistono i suoni che in italiano si scrivono GL e SC), né le altre lingue hanno tutti i suoni impiegati dal veneto (pensiamo alla Ł, o alle interdentali sorda TH e sonora DH, del tutto assenti in italiano). Pertanto, si è resa necessaria un’opera di coordinamento dei grafemi usati per definire tutti i fonemi che compaiono nelle suddette lingue.
Ecco che ha preso forma questo progetto di Convenzione Grafica Internazionale (Co.Gr.I.) che, partendo dalla volontà di dare alla lingua veneta una grafia il più possibile “naturale”, è finito per inserirsi -quasi inconsapevolmente- come prossimo passo di quella Dichiarazione d’intenti del 1888, che finora era rimasta una superfetazione da dizionario, poiché mai rilevata nella pratica dello scrivere quotidiano di alcuna lingua.
La caratteristica comune a queste lingue neolatine e che rende praticabile -allo stato delle cose- questo progetto è il fatto che i parlanti sono grossomodo abituati ad avere una ortografia fonemica (cioè con alta corrispondenza tra grafema scritto e fonema pronunciato). Poiché l’elemento necessario è “l’abitudine all’ortografia fonemica”, questo progetto ben si applicherebbe a qualunque altra lingua che adotti un alfabeto latino e i cui parlanti siano appunto abituati a leggere ciò che scrivono lettera per lettera, o almeno sillaba per sillaba, come potrebbe facilmente avvenire per molte lingue slave, e in parte per li
ngue germaniche.
La speranza ed il desiderio sono quindi che le varie accademie di lingua interessate (autorizzate o meno) si siedano attorno ad un tavolo per discutere sia dei principi contenuti in questo testo (naturale, anche se non intenzionale prosecuzione dei punti del 1888), sia delle scelte grafiche operate in ottemperanza ai suddetti principi, per verificarne bontà, coerenza, applicabilità, convenienza.
Un appello invece ancora più accorato va a quelle tra le lingue citate che -come il veneto- hanno subito o ancora subiscono discriminazioni culturali, oppure sono a rischio estinzione: ci rivolgiamo quindi a tutti gli indipendentisti che vogliano far tesoro di questa enorme e storica possibilità di abbattere una delle tante barriere che dividono i veri popoli d’Europa. Incontrandoci, confrontandoci e collaborando fraternamente sulla lingua potremo dare una rinnovata spinta, una fresca energia all’indipendentismo stesso: coordinando le grafie delle nostre lingue potremo dimostrare ai nostri e agli altri popoli che abbiamo armi per difendere la nostra cultura, e che -nonostante i mille ostacoli posti sul nostro cammino- abbiamo menti e cuori per battere sul tempo le obsolete e pachidermiche macchine degli Stati centrali che ci opprimono.