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1866-2006: 140 anni di occupazione Italiana del Veneto

 

…nel 1866 in Veneto è stato perpetrato un crimine da parte dell’Italia contro la Popolazione Veneta e il suo diritto all’autodeterminazione. Ora è giunto il tempo per i Veneti di riprendere in mano il proprio destino di Nazione Storica d’Europa, il Veneto deve far sentire la propria voce nel consesso internazionale per far sì che il diritto all’autodeterminazione venga sancito anche in Veneto…

 

 

Ottobre 1866, questo mese è ricco di significati per la storia del Popolo Veneto, ma è ancor più ricco di valore per l’oggi della nostra terra.
140 anni sono passati da quel fatidico mese: infatti è da 140 anni che la terra Veneta è occupata dall’invasore italiano, e quest’occupazione è avvenuta al di fuori dal diritto internazionale e dai patti sottoscritti attraverso un referendum/plebiscito truffa. Di questo referendum non occorre dire molto, i soli risultati dimostrano l’inganno e la violenza perpetrata nei confronti dei Veneti tutti: 641.758 SI, 69 NO, 273 NULLI. I soli 69 voti contrari all’Italia dimostrano in tutta la sua essenza la truffa, che poi le infauste cronache di quei giorni ci rendono ancor più chiara: ricordiamoci che in tutti i campi di battaglia i Veneti, nel 1866, si sono distinti per l’ardore con cui si sono opposti all’invasione italiana, e ricordiamo a tutti che l’Italia nel 1866 non ha mai vinto una battaglia (anche la presunta "vittoria" di Garibaldi a Bezzecca e il suo "Obbedisco!" sono tutti da dimostrare). I libri di scuola dicono altro, ma cosa ci possiamo aspettare? Che chi ha truffato e continua a truffare in ogni modo i Popoli italiani possa ammettere che tutta la storia italiana è da riscrivere, e che la prezzolata "intellighenzia" italiota dalla cosiddetta unità d’Italia ad oggi non ha fatto altro che del negazionismo?
Quindi la conclusione è ovvia: nel 1866 in Veneto è stato perpetrato un crimine da parte dell’Italia contro la Popolazione Veneta e il suo diritto all’autodeterminazione. Ora è giunto il tempo per i Veneti di riprendere in mano il proprio destino di Nazione Storica d’Europa, il Veneto deve far sentire la propria voce nel consesso internazionale per far sì che il diritto all’autodeterminazione venga sancito anche in Veneto. 140 anni di violazione dei trattati internazionali da parte dell’Italia sono troppi, ora è necessario che l’ONU adotti una risoluzione che sancisca il diritto dei Veneti all’autodeterminazione tramite libero referendum con garanzie internazionali certe; ciò è necessario altrimenti il dubbio che nelle organizzazioni internazionali esistano popoli di serie A e popoli di serie B diventerà certezza. Se lo Stato Italiano ha avuto una deroga al rispetto degli accordi e del diritto internazionale il Popolo Veneto vorrebbe saperlo.
La storia recente e la cronaca internazionale di questi giorni stanno a dimostrare come i Popoli si sono risvegliati dal torpore portato dagli Stati Nazionali nel XIX secolo, e come la questione dell’autodeterminazione dei Popoli sia tornata all’ordine del giorno. Una seria e lucida analisi ci fa capire che il diritto al libero arbitrio di ogni Popolo e l’avere confini stabili e sicuri è la via che appianerà i conflitti tra le varie etnie e nazioni. Gli esempi più recenti (Balcani, Afghanistan, Irak, e vari stati Africani) sono lì a dimostrare come la mania di voler creare a tutti i costi Stati che non hanno omogeneità di storia, cultura e tradizioni porta inevitabilmente ad attriti che se non sanati scoppiano. L’escalation scoppiata con la caduta del muro di Berlino, come ogni giorno possiamo leggere nei giornali, sta avendo un effetto domino in tutto il mondo e l’onda d’urto prima o poi colpirà anche il Veneto e con esso tutti gli altri Popoli e Stati della penisola Italiana.
L’identità di un Popolo o di una Nazione con 1100 anni di storia, come lo è la Veneta Serenissima Repubblica e i sui Popoli, è come una pianta: anche se viene tagliata le radici che rimangono sono così forti, profonde e difficili da estirpare, che se tolte causano una frana di proporzioni inimmaginabili.
Il diritto alla libertà non viene cancellato con un colpo di spugna come vuole farci credere lo Stato occupante Italiano, il 21 ottobre (anniversario del referendum farsa) deve essere il giorno in cui i veneti iniziano a riappropriarsi della propria identità di Nazione storica d’Europa.
L’Italia è uno Stato fantoccio che sta crollando sotto l’immenso peso delle sue contradizioni, tutti i Popoli della Penisola non devono rimanere a guardare ma devono far crollare questa "Nazione" che ha portato solo tragedie e lutti di proporzioni inimmaginabili, e che ci spinge sempre di più sull’orlo del baratro.
L’ultimo dei più beceri colonialismi, lo straccioimperialismo italiano, deve terminare e i Veneti come tutti gli altri Popoli sotto il giogo italiano devono ritornare padroni del Proprio destino. La rinascita della Veneta Serenissima Repubblica è scritta nel destino della nostra terra, più passa il tempo è più le contraddizioni in seno allo Stato Italiano diverranno aspre.
Il diritto all’autodeterminazione e alla resistenza è l’ossigeno dei Popoli, lo Stato italiano con le sue scellerate scelte (politica economica, politica estera, giustizia, alleanze, scelte in campo morale, ecc.) sta mettendo a rischio la sicurezza del Popolo Veneto e ciò non potrà che aggravare la posizione dell’Italia di fronte al consesso internazionale.
Per questo noi del Veneto Serenissimo Governo abbiamo indetto una raccolta di firme per rifare il Referendum che aggregò il Veneto all’Italia, avente questo testo: "Noi, Popolo Veneto, chiediamo che il referendum del 21 ottobre 1866, avente come oggetto l’unione o meno del Veneto all’Italia, venga rifatto, in quanto il medesimo non si è svolto secondo gli accordi internazionali bensì in violazione anche delle più elementari regole democratiche. Inoltre, chiediamo che, sotto la supervisione dell’ONU, i Rappresentanti di Francia, Austria, Italia e del Veneto Serenissimo Governo istituiscano un tavolo di trattative per stabilire le modalità e le regole d’indizione del nuovo referendum."
Il rifacimento del Referendum del 1866 è l’ultima possibilità che il Veneto dà all’Italia per sanare quella violazione del diritto internazionale che ormai da 140 anni si perpetua.

 

Demetrio Serraglia
Ufficio Storico
del Veneto Serenissimo Governo




Lepanto simbolo della libertà dell'Europa e dell'Occidente

Lepanto è un luogo della memoria per la cultura europea e per l’occidente tutto, lì il 7 ottobre 1571 si svolse "il più grande evento che videro i secoli", come ebbe ad affermare Miguel Cervantes.

Come ogni luogo della memoria gli eventi che lì si volsero debbono avere una funzione didattica per le generazioni future. Quella sanguinosa battaglia navale fu uno dei picchi più alti per la difesa della nostra civiltà. La storia molte volte ha uno svolgimento ciclico, e le dinamiche geopolitiche si ripetono: nei primi anni del nuovo millennio il pericolo dell’espansionismo islamico è tornato all’ordine del giorno: oggi come nel 1571 c’è la necessità che l’occidente si unisca per difendersi dall’invasione e dall’espansionismo islamico.

Nel XVI secolo l’Europa era sotto scacco da parte del pericolo ottomano, oggi è sotto attacco da parte del terrorismo internazionale di matrice islamica. La vittoriosa Battaglia di Lepanto (1571) come poi la Battaglia di Vienna (1683) furono un segnale chiaro per il mondo islamico, l’occidente non si sarebbe arreso e altre stragi come quelle avvenute a Famagosta non si sarebbero ripetute. Il futuro che attende l’Europa del XXI secolo ha i contorni assai cupi, anche per la complicità di taluni governi europei, e ciò sembra rendere vani i sacrifici fatti dalla flotta cristiana in quel lontano XVI secolo. Cosa ha significato Lepanto per la cristianità e per l’Europa tutta? Ha significato impedire ai Turchi di diventare l’unica potenza egemone del Mediterraneo, opponendosi alla diffusione della cultura islamica in tutta l’Europa.

Non bisogna dimenticare che l’Islam ha occupato tre dei cinque patriarcati originari della Chiesa (Alessandria, Antiochia, Costantinopoli), ne tiene uno sotto assedio (Gerusalemme), e il patriarcato di Roma è sotto costante minaccia: è dovere di ogni cristiano far sì che questi ritornino alle loro antiche radici. Sta ad ogni Governo fare la propria parte per respingere l’invasione islamica e difendere la propria gente, storia e tradizioni. I governi che non si muoveranno di fronte a questo pericolo ne risponderanno alle proprie genti e davanti al tribunale della storia che nei suoi giudizi non ammette appelli.

Oggi come a Lepanto dobbiamo senza nessun tentennamento difenderci da chi sta minacciando la nostra incolumità: l’espansionismo islamico. L’Italia che continua a reprimere la libertà del Popolo Veneto (da sempre è stato un baluardo a difesa della cristianità e dell’Europa tutta), violando gli accordi internazionali da Lei stessa sottoscritti, non può che essere un complice degli Stati che sovvenzionano il terrorismo quale avanguardia dell’espansionismo islamico. La rinascita della Veneta Serenissima Repubblica non potrà che essere salutare al mondo occidentale.

Non si può far finta di non vedere quale sia la realtà dei fatti: l’occidente rischia di diventare una fortezza assediata come lo era Famagosta. Non bisogna aver paura di affermare ciò che è vero, e che è alla luce del sole: questa è una guerra per la sopravvivenza, o si vince o si perde. Ora sta a noi trarre le conseguenze e fare una scelta di campo, non è più possibile tirarsi da parte e fare gli spettatori, oggi ogni persona è parte in causa, tutti siamo coinvolti direttamente. Qualsiasi sarà la nostra scelta dobbiamo sapere che avrà conseguenze per chi ci circonda e per i nostri figli. Non si potrà più dire: "non lo sapevo", "non immaginavo", "era imprevedibile" ora si è stati avvisati. "Che si combatta è necessità, non si può far di manco" così affermò il Capitano Generale Sebastiano Venier alla vigilia della battaglia di Lepanto. Questa parola d’ordine è d’obbligo anche oggi, i Popoli devono ribellarsi a quei Governo collaborazionisti che si rifiutano di contrastare e combattere il terrorismo. Nel 1571 la Lega Santa racchiudeva tutte le forze che combattevano contro il pericolo islamico, oggi è necessaria una grande alleanza occidentale che si stringa al fianco di USA, Israele e Regno Unito per la lotta contro la canaglia terrorista.

Il terrorismo ed il fanatismo islamico dopo l’11 settembre 2001 si sono riproposti come problemi che urgono di una soluzione stabile. È compito di ogni donna e uomo impegnarsi per la difesa dei sacri valori che caratterizzano la civiltà occidentale. Quella millenaria civiltà europea che si fonda sui 10 Comandamenti che Dio ha dato a Mosè. È bene ricordare a tutti quale sia la struttura delle tavole della Legge: Esse sono divise nei 3 comandamenti religiosi, e nei 7 laici che indicano quale debba essere la condotta morale di ogni persona che vuole vivere nella nostra società.

Il Veneto Serenissimo Governo invita tutti Popoli ad onorare, durante questa settimana, presso ogni Santuario Mariano recitando il Rosario, tutti i marinai e fanti di mare caduti sul campo d’onore per difendere l’Europa tutta; ricordando i comandanti della Lega Santa: Don Giovanni d’Austria, Sebastiano Venier, Agostino Barbarigo, Marcantonio Colonna e il Marchese di Santa Cruz.

I soldati della flotta cristiana sono veri martiri caduti per la difesa della nostra Europa.

In questa ricorrenza non possiamo non ricordare tutti quegli eroi, oltre agli indomiti combattenti di Lepanto, che in ogni epoca hanno contrastato il terrorismo e l’espansionismo islamico: Marcantonio Bragadin, Beato Marco d’Aviano, Eugenio di Savoia, Giovanni III Sobiesky, Marco Botzari, Massud (il leone del Panshir), Itzak Rabin, e molti altri ancora. In questo anniversario di festa per la libertà d’Europa non può mancare un saluto ad Oriana Fallaci, che con i suoi scritti e sempre viva nei nostri cuori; le sue parole sono come un faro che ci guida con rabbia verso la consapevolezza che la libertà arriverà solo se ritroveremo l’orgoglio di appartenere ad una cultura che va difesa ad ogni costo.

 

Demetrio Serraglia

Ufficio storico del Veneto Serenissimo Governo




La farsa Plebiscitaria del 1866 in Veneto

Se lo Stato Italiano ha avuto una deroga al rispetto degli accordi e del diritto internazionale il Popolo Veneto vorrebbe saperlo.

 

 

140 anni fa, nel 1866, in questi giorni si stava preparando in Veneto quella truffa referendaria (plebiscito di unione all’Italia) che tolse la libertà al Popolo Veneto e che lo costringe tuttora a sottostare ad un’illegale stato di occupazione da parte dell’Italia.

Ma ricapitoliamo gli avvenimenti: in giugno a Custoza ed in luglio a Lissa le forze armate italiane persero gli scontri con l’esercito asburgico composto anche da istro-veneti, la bandiera tricolore italiana per questi valorosi soldati e marinai istro-veneti era solo un bottino di guerra che veniva conquistato al grido di "Viva san Marco!". Con il loro sangue i soldati Veneti rovesciarono gli accordo segreti di Parigi (aprile 1866), in cui il Veneto sarebbe passato all’Italia senza referendum come una merce di scambio qualsiasi. Così, grazie a queste vittorie i Veneti si conquistano il diritto di decidere liberamente del proprio destino di Popolo, tramite una consultazione referendaria da svolgersi sotto l’egida della Francia, una potenza terza rispetto Austria e Italia.

Il timore per l’Italia era che si ricostituisse la Repubblica Veneta e che l’espansione savoiarda finisse in una bolla di sapone: difatti erano ancora vive le esperienze di Daniele Manin nel 1848 e del Governatorato del Lombardo-Veneto di Massimiliano d’Asburgo. A fronte di questa preoccupazione crescente, e ritenendo che una libera consultazione tra il Popolo Veneto avesse causato la rinascita di un’entità statale veneta, il governo italiano con i suoi prezzolati tirapiedi (poi chiamati patrioti italiani) si mobilitarono per evitare che ci fosse alcun controllo internazionale della consultazione, violando così in modo palese gli accordi decretati dalla Pace di Vienna e dall’Armistizio di Cormons. Per realizzare il proprio malvagio piano l’esercito italiano cominciò una crescente campagna intimidatoria accompagnata dall’occupazione di tutti i municipi veneti.

Ecco alcuni esempi di pubblica minaccia: per quello che dicevano, i manifesti per il plebiscito erano una sorta di ricatto morale a chi andava a votare, in uno di questi si può leggere: "Chi dice Sì mostra sentirsi uomo libero, padrone in casa propria, degno figlio d’Italia. Chi dice No la prova d’anima di schiavo nato al bastone croato! Il Si, lo si porta all’urna a fronte alta, sotto lo sguardo del sole, colla gioja nell’anima, colla benedizione di Dio! Il No, con mano tremante, di nascosto come chi commette un delitto, colla coscienza che grida: traditore della patria!" La Gazzetta di Verona il 17 ottobre 1866 parlando del plebiscito riporta: "Sì, vuol dire essere italiano ed adempiere al voto dell’Italia. No, vuol dire restare veneto e contraddire al voto dell’Italia". Come mai sottolineare l’essere veneto? Non erano forse tutti per l’unità stando a quanto ci viene riportato nei libri di scuola? Questo mi sembra uno dei vari elementi che mettono in dubbio il fatto che i risultati del plebiscito siano la risultante della reale volontà della gente veneta.

La truffa ai danni dell’invitto Popolo Veneto si consumò il 19 ottobre 1866 in una stanza dell’hotel Europa, nel Canal Grande a Venezia, nella quale il plenipotenziario francese il gen. Leboeuf consegnò il Veneto ai commissari italiani ben due giorni prima della data in cui era fissato il referendum: questa fu la palese violazione di quanto stabilito dagli accordi internazionali sanciti dall’Armistizio di Cormons e dalla Pace di Vienna.

Il 21 ottobre 1866 ebbe luogo sul suolo Veneto la farsa plebiscitaria con tutto il Veneto invaso da forze d’occupazione dell’esercito italiano, in cui vennero proibite dall’Italia perfino le tradizionali processioni religiose in quanto "assembramento pericoloso per l’ordine pubblico". Il risultato (641.758 SI, 69 NO, 273 NULLI) è la prova intangibile del broglio perpetuato, soprattutto i 69 sono emblematici: il valore sul campo di battaglia dei soldati veneti che vinsero contro l’Italia sono dati di fatto incontestabili e provati dalle relazioni degli stati maggiori Asburgici, mentre i verbali del plebiscito redatti nei seggi sono introvabili. Lo stesso storico Luigi Sutto di Rovigo, nel 1903, fu incaricato dal Museo del Risorgimento di ricostruire dati ed episodi del Plebiscito. Il suo insuccesso fu quasi totale perché non riuscì a visionare i verbali del plebiscito. Perché gli fu vietata tale visione?

Queste poche righe ci danno un’idea del fatto che nel 1866 in Veneto sia stato perpetrato un crimine da parte dell’Italia contro la Popolazione Veneta e il suo diritto all’autodeterminazione. Ora è giunto il tempo per i Veneti di riprendere in mano il proprio destino di Nazione Storica d’Europa, il Veneto deve far sentire la propria voce nel consesso internazionale per far sì che il diritto all’autodeterminazione venga sancito anche in Veneto. 140 anni di violazione dei trattati internazionali da parte dell’Italia sono troppi, ora è necessario che l’ONU adotti una risoluzione che sancisca il diritto dei Veneti all’autodeterminazione tramite libero referendum con garanzie internazionali certe; ciò è necessario altrimenti il dubbio che nelle organizzazioni internazionali esistano popoli di serie A e popoli di serie B diventerà certezza. Se lo Stato Italiano ha avuto una deroga al rispetto degli accordi e del diritto internazionale il Popolo Veneto vorrebbe saperlo.

 

Il Responsabile dell’Ufficio

per il Rifacimento del Referendum del 1866

Demetrio Serraglia




"Accadde a Famagosta"

Gigi Monello
"Accadde a Famagosta"

Scepsi & Mattana Editori
2006 – pp.192, tavole 10
Euro 15
ISBN 88-902371-0-4


"Una guarnigione di seimila uomini asserragliata dentro la città di Famagosta, resiste per dieci mesi all’assedio di centomila Turchi. Nonostante la schiacciante superiorità numerica, convinto di essere soccorso in tempo, il comandante della fortezza, il veneziano Marcantonio Bragadin rifiuta sdegnosamente ogni trattativa e porta avanti la lotta sino all’estremo limite. Logorato da mesi di bombardamento, senza più viveri e munizioni e dopo ben sei assalti nemici respinti, il presidio italiano, ridotto a poche centinaia di larve rannicchiate tra le macerie, si arrende. Ottenute onorevoli condizioni, il Bragadin accetta la capitolazione; l’atto è steso sopra una pergamena bollata d’oro. È il 2 Agosto 1571. Tre giorni dopo il comandante veneziano, seguito da una schiera di ufficiali e soldati, si reca nell’accampamento turco per consegnare le chiavi della città a Lala Mustafà, capo dell’esercito ottomano. Ricevutili nelle forme della più squisita cavalleria militare, il Pascià muta improvvisamente viso e tono e, presa a pretesto una oscura questione di prigionieri non restituiti, comincia a insolentire il veneziano. La verità si fa ben presto chiara: si violano i patti. I cuori si gelano. È la strage. Tutti gli Italiani vengono legati e subito decapitati; le loro teste ammucchiate davanti alla tenda del Pascià. La soldatesca turca, senza più freni, entra nella città, massacra i difensori, saccheggia le case, oltraggia le donne.
Con sadico calcolo, il Bragadin è tenuto in vita per altri undici giorni; poi, una mattina, dopo ore di beffe e percosse in giro per la città, è, con orrendo sistema, messo a morte. Il fatto avviene il 17 Agosto 1571. Mancano 51 giorni a Lepanto."

Questo libro è ben scritto, c’è una ricerca fatta con cura delle fonti a disposizione, la cronaca dei fatti è dura e corrispondente ai fatti. Qualche purista potrebbe storcere il naso per i troppi riferimenti agli italiani e il confondere qualche volta Venezia con l’Italia; con l’amico Gigi Monello abbiamo chiarito l’equivoco. Ma niente toglie all’importanza dell’Opera e all’omaggio agli invitti eroi di Nicosia e Famagosta.
Al di là dei meriti storici, per evitare che questo libro vada a finire in una polverosa libreria, si tratta di trarne dalla lettura i conseguenti insegnamenti; le battaglie di Sparta e di Famagosta continuano anche nei giorni nostri, vedi l’aggressione islamica ad Israele e all’Occidente tutto. Esiste una linea rossa che unisce queste guerre, io penso che questo libro aiuti a comprendere e a porsi di fronte alle nostre responsabilità individuali e collettive.

 

Demetrio Serraglia
Ufficio Storico
del Veneto Serenissimo Governo

Per richiedere il libro scrivere
a Veneto Serenissimo Governo

casella postale 64
36022 – Cassola (VI)
VENETO
pepiva@libero.it – kancelliere@katamail.com
tel. 349 1847544
340 6613027




Famagosta 1571 – Venetorum fides inviolabilis

Le battaglie combattute nel 1571 (Famagosta e Lepanto) dalla Repubblica Veneta e dalla Lega Santa e poi nel 1683 dalle Forze Cristiane a Vienna assumono una funzione didattica su come bisogna comportarsi con l’espansionismo islamico: la dignità unita alla forza, la spada che difende e legittima la diplomazia, il non arrendersi perché l’onore delle armi non è concesso dall’Islam, il trattare solo quando si ha vinto.

 

 

 

Dopo 72 giorni d’inaudita ed eroica lotta nella piazza forte di Famagosta a Cipro nel 1571 tra le forze Venete, composte anche da Greco Ciprioti e da soldati provenienti da varie zone della penisola italiana, al comando del Veneto Eroe Capitano Generale Marcantonio Bragadin, e gli attaccanti Turchi, le armi per la prima volta tacquero, si stava per consumare l’ultimo e più tragico epilogo di quest’immane scontro: il martirio del comandante Veneto. Per tutta la battaglia, che alla fina avrà mietuto la spaventosa cifra di ottantamila soldati Turchi e seimila tra Veneti e civili, il Generale Bragadin, durante quei terribili giorni, aveva dato prova di straordinarie doti di coraggio infondendo fiducia nei difensori e non sottraendosi mai ai suoi doveri di comandante, con questo suo continuo esempio aveva permesso alla guarnigione di resistere ad oltranza nonostante centosettantamila cannonate, assalti continui e l’esplosione di mine la cui potenza sarà eguagliata solo nelle due ultime guerre mondiali. La catastrofica situazione igienico sanitaria, migliaia e migliaia di corpi insepolti sotto il sole estivo, la mancanza d’acqua e di cibo e le promesse di rispetto della popolazione civile fatte dal comandante Turco, fecero breccia presso una popolazione ormai ridotta alla disperazione. Il Capitano Baglioni assieme a vari maggiorenti della città chiese in maniera brusca al generale Veneto e al suo stato maggiore di accettare le condizioni di resa imposte dal condottiero turco, il generale e i suoi ufficiali risposero un secco no. La resa fu firmata dal Baglioni.

I patti non furono rispettati e una volta deposte le armi furono tutti fatti prigionieri, il primo ad essere giustiziato fu il Baglioni, all’eroico comandante Veneto fu riservato il trattamento più atroce che mente umana possa concepire al punto che gli stessi Turchi, solitamente abituati alle più efferate crudeltà, si impressionarono per le barbarie compiute dal comandante Turco.

Dopo 18 giorni di innumerevoli torture il Capitano ormai stremato e debilitato oltre ogni misura e con il viso in avanzato stato di purulenza fu legato ad una colonna e a cominciare dalla nuca gli fu lentamente staccata la pelle dal corpo in un sol pezzo. Per tutto il tempo del supplizio non usci un solo gemito dalla bocca del Comandante Veneto.

I difensori Veneti si erano battuti come leoni, cosi riferisce il comandante Turco e questo non fa che aumentare il loro valore considerando che lo stesso esercito quasi 400 anni dopo aveva ancora la forza di ributtare in mare due potenze planetarie dell’epoca: Francia e Regno Unito (Gallipoli 1915).

E’ giusto ricordare questo evento storico con la S maiuscola perché fatto sparire dalla memoria collettiva del nostro popolo dalla retorica patriottarda risorgimentale che ci ha imposto fasulli eroi e falsi miti.

Il martirio dell’eroe Bragadin e la sua frase "Venetorum fides inviolabilis" fatta incidere durante gli scontri è quanto mai attuale. Quotidianamente siamo sottoposti a gravissimi pericoli che incombono sulla nostra terra e sulla nostra esistenza di uomini liberi da parte di forze e culture estranee. La vicenda del Generale Bragadin deve essere presa come un esempio per gli alti valori morali che il comandante ha dimostrato.

Questo scritto non è diretto ai soli Veneti ma a tutti gli uomini che si riconoscono negli stessi valori immortali che ogni uomo degno di questo nome dovrebbe avere nel proprio cuore nel difendere la propria storia, cultura, tradizioni e religione.

Il Veneto Serenissimo Governo sta da anni cercando di far questo anche se 140 anni di occupazione italiana, avvenuta con la truffa referendaria del 1866, hanno devastato le menti del nostro popolo, e come Marcantonio Bragadin non demorde dal suo impegno di riportare alla luce Marciana il nostro Veneto.

Le battaglie combattute nel 1571 (Famagosta e Lepanto) dalla Repubblica Veneta e dalla Lega Santa e poi nel 1683 dalle Forze Cristiane a Vienna assumono una funzione didattica su come bisogna comportarsi con l’espansionismo islamico: la dignità unita alla forza, la spada che difende e legittima la diplomazia, il non arrendersi perché l’onore delle armi non è concesso dall’Islam, il trattare solo quando si ha vinto. Esempi cui deve mirare un patriota difensore delle tradizioni giudaico cristiane sono Marcantonio Bragadin (indomito difensore di Famagosta e martire della Serenissima), Sebastiano Venier e Don Giovanni D’Austria (principali protagonisti della vittoria della flotta cristiana a Lepanto), Beato Marco d’Aviano (con la sua guida spirituale guidò gli eserciti cristiani nella difesa di Vienna e per la liberazione di Buda e Belgrado) ed il re di Polonia Giovanni III Sobieski (indomito difensore di Vienna e dell’Europa tutta dall’espansionismo islamico).

Venezia, 7 agosto ’06

Il Vicepresidente Vicario Plenipotenziario

del Veneto Serenissimo Governo

Luca Peroni




Conferenza ad Enego su Marcantonio Bragadin

Sabato 5 agosto alle ore 17.00 ad Enego (VI), presso la Palazzina Turistica, ci sarà una conferenza in ricordo del grande condottiero Veneto Marcantonio Bragadin, eroico difensore di Famagosta nel 1571, simbolo della lotta contro l’espansionismo islamico.

Marcantonio Bragadin fu un Martire Veneto per la salvezza dell’Europa tutta.




1866: la verità

Indice

Indice

Introduzione

La cessione del Veneto Ricordi di un Commissario Regio Militare – Genova di Revel

1866: la grande truffa Il plebiscito di annessione del Veneto all’Italia – Ettore Beggiato

I Veneti nella preparazione e nella guerra del 1866 (con documenti inediti e rari) – Giuseppe Solitro

 

Introduzione

Perché trattare un argomento come il Plebiscito del 1866 in Veneto? L’idea mi è venuta mentre mi soffermavo a leggere i risultati della votazione: 641.758 SI, 69 NO, 273 NULLI. La mia attenzione si è subito posata su quei 69 no, perché questa cifra mi è sembrata troppo esigua per essere veritiera su come andarono i fatti.

Per ragionare in merito a questo argomento voglio utilizzare le parole con cui il Plebiscito del 1866 è già stato esaminato da tre studiosi: Thaon Genova di Revel (commissario regio militare italiano per la cessione del Veneto nel 1866), Ettore Beggiato (una delle anime del movimento venetista), Giuseppe Solitro (storico che ha lavorato durante il ventennio fascista).

Mio obbiettivo è, partendo da questi tre autori di idee completamente diverse, scoprire come si arrivò a quei 69 no. Di che cosa furono frutto? Questa è la domanda che mi ha accompagnato in tutta la mia ricerca.

Demetrio Serraglia

 

 

 

 

 

La cessione del Veneto

Ricordi di un Commissario Regio Militare

Genova di Revel

F. Lumacchi

Libraio – Editore

Firenze 1906

Questo libro va inquadrato durante i fatti del 1866, più tardi ricordati come terza guerra d’indipendenza. Oltre all’Italia sono attori in quel periodo nella storia del Veneto l’Austria, la Francia e la Prussia.

Il Generale Conte Genova Thaon di Revel fu l’incaricato da parte del Governo Italiano per le trattative riguardanti l’acquisizione del Veneto.

In quel periodo l’obbiettivo del costituendo regno Italiano era l’annessione del Veneto e del Lazio. Tutta la diplomazia sabauda si stava adoperando per far si che il Veneto passasse sotto il dominio dei Savoia. Il Lombardo-Veneto in quel periodo faceva parte dei domini austriaci. Altro Stato che aveva come avversario l’impero asburgico era la Prussia, che stava realizzando nelle terre tedesche lo stesso progetto che il Piemonte stava attuando nella penisola italiana. Quindi fu facile stabilire un’alleanza tra i due stati, essa fu firmata l’otto aprile 1866: il 4° articolo recita "Ce consentement ne saura etre refusé quand l’Autriche aura consenti à ceder le Royaume Lombardo-Venetien, et à la Prusse des territoires équivalens au dit Royaume en population". Tutto ciò sarebbe avvenuto in caso si fosse dichiarato guerra all’Austria, e se naturalmente la guerra fosse stata vinta.

Napoleone III, imperatore di Francia avrebbe voluto che tutto si svolgesse senza nessun conflitto.

Il 16 giugno i prussiani passarono le frontiere sassoni e annoveresi e quindi iniziò la guerra, nonostante tutti gli sforzi delle varie diplomazie europee. Di conseguenza il 20 giugno (in base ai trattati) il Regno d’Italia dichiarava guerra all’Austria-Ungheria.

Lo Stato Maggiore dell’Esercito italiano aveva grandi aspettative di vittoria nei confronti dell’impero asburgico, però dalle parole dello stesso Thaon di Revel emerge il fatto che i generali di divisione nulla sapevano l’uno dell’altro. La confusione era sovrana tra le linee italiane e l’Arciduca Alberto, comandante delle truppe austro-ungariche seppe di essere vincitore dai dispacci dell’esercito italiano; la battaglia di Custoza era da lui considerata un piccolo combattimento nel quale il nemico era stato respinto, a differenza di Lamarmora che la considerò una gravissima sconfitta.

Solo grazie alla sconfitta austriaca nella battaglia di Sadowa (3 luglio 1866), vinta dai prussiani, l’Austria cedette il Veneto a Napoleone III. L’Italia non era disposta a ricevere il Veneto per interposta persona e voleva che fosse rispettato l’onore delle armi in quella guerra. Fu tentato di salvare l’onore italico tramite la marina italiana, ma il risultato fu altrettanto disastroso a causa dell’impreparazione della marina italiana e della disorganizzazione degli stati maggiori. Lissa fu il luogo fatale per la marina italiana come Custoza lo fu per l’esercito, ma nonostante l’evidente sconfitta l’ammiraglio Persano si proclamò vincitore della battaglia.

La situazione era diventata ancora più gravosa per il Regno Sabaudo uscito sconfitto dalla guerra e costretto a scendere a patti sia con l’Austria che con la Francia diventata ormai padrona del Veneto in seguito all’armistizio tra Prussia e Austria.

L’Austria impone all’Italia come disposizione per un armistizio l’evacuazione delle truppe italiane presenti in Tirolo, l’Italia dovette accettare. Avutane notizia Napoleone III scrive a Vittorio Emanuele II: "… Padrone del suo destino, il Veneto potrà col suffragio universale esprimere la sua volontà. …". A Cormons viene poi firmato l’armistizio il 12 agosto. Anche nel preambolo del trattato della Pace di Vienna viene ribadito il fatto che l’Austria avrebbe ceduto i territori veneti alla Francia, e quest’ultima li avrebbe rimessi alle autorità venete e le popolazioni dovevano essere consultate per decidere la sorte del loro paese.

Quanto appena scritto è un breve sunto dei fatti che precedettero il vero lavoro diplomatico di Thaon di Revel, ma anch’essi sono significativi e sono una buona spia per capire poi come si svolse il lavoro diplomatico sia del Governo sia dei suoi delegati. Tutto si svolse come vedremo in modo caotico, violando quali fossero gli accordi precedentemente sottoscritti, questo è quanto afferma e giustifica Thaon di Revel. C’è chi ha preferito, per comodità, ignorare i trattati: l’Austria; e chi ha voluto ignorare gli accordi perché questo era l’unico modo per avere il possesso del Veneto: l’Italia.

14 settembre 1866: il Governo italiano affida a Thaon di Revel l’ufficio di Commissario Militare per gli accordi relativi alla consegna del Veneto da parte delle Autorità austriache alle Autorità italiane.

Ora elencherò alcune parte di trattati o dichiarazioni che illustreranno il comportamento delle parti in causa (Italia, Austria, Francia):

Visconti Venosta (ministro degli esteri) scriveva "Il Regio Commissario Militare dovrà pure concertare verbalmente ed in tempo opportuno coi tre Commissarii ai quali il Commissario francese farà la consegna del Veneto, tutte le precauzioni perché sia evitato ogni interva
llo, od ogni solennità ne a chiamata delle RR. Truppe per parte del Municipio di Venezia e perché appena fatta ai medesimi la consegna del Veneto, essi deferiscano alla persona designata a Regio Commissario Civile per quella città le incombenze di ragione."

Le istruzioni a Leboeuf erano dettagliate, al terzo e al quarto punto dicono: "3° Aussitot que la paix sera conclude, le Commissaire français recevra du Commissaire autrichien les places du quadrilatére et il en fera la remise aux autorités municipales successivement et en mettant le plus court délai possible entre chacune des opérations.

4° Le Commissaire français se rendra en suite à Venise, où la remise de la Vénétie lui sera faite par le Commissaire autrichien; il y réunira une Commission de trois membres à laquelle il fera la retrocession de la Vénétie.

Cette Commission déterminera, d’accord avec les autorités municipales, le mode et l’époque du plébiscite qui aura lieu librement par le suffrage universel et dans le plus bref délai possible."

Leboeuf tenne importante affermare alle parti in causa che in caso di dissenso si doveva far riferimento all’arbitrato della Francia, Thaon di Revel seguendo le istruzioni del presidente del consiglio Ricasoli fece di tutto per rendere il commissario francese antipatico a quello austriaco (Moering), per evitare così ogni sorta di interferenza della Francia nella questione Veneto.

Il problema principale di Thaon di Revel era di far partire quanto prima le truppe austriache dal Veneto e di ammettere le italiane, l’incognita era Leboeuf che "aveva solennemente dichiarato, che nessun soldato italiano doveva entrare nelle piazze, prima che queste fossero evacuate dagli austriaci e che si fosse fatto il plebiscito".

Il primo ottobre 1866 venne firmata una convenzione che tra Francia, Austria e Italia che al punto 2° stabiliva: "il commissario italiano s’incarica di dare le disposizioni necessarie onde provvedere un presidio italiano alle municipalità delle piazze, che gliene faranno richiesta, allorché le dette piazze saranno state cedute regolarmente alle municipalità dal Commissario francese." A commento di questa convenzione Thaon di Revel scrisse che questo documento era un modo per evitare l’intrusione dei francesi, e che fu firmata senza chiedere istruzioni al governo, perché all’interno del gabinetto italiano ognuno la pensava a modo proprio e mancava ogni tipo di unità di intenti.

Il 30 settembre 1866 Ricasoli trasmette un comunicato in cui scrive: "…Sono i Municipii, che devono apparecchiare ed eseguire il Plebiscito, e per questo lato io sono perfettamente tranquillo per le sei provincie, che già sono rette da funzionari a nome del Governo italiano. Vi sono tre provincie ancora, Venezia, Verona e Mantova, che sono oggi in uno stato prossimo all’anarchico. Vi occorre la installazione dei Commissarii italiani, e la composizione immediata di Municipii di buona fattura, cosa può aversi se non col mezzo dei Commissarii. Per queste ragioni credo non si possa convocare il Plebiscito, se non immediatamente dopo l’ingresso delle truppe nostre nelle tre città suddette e l’arrivo dei Regi Commissarii. (…) Inoltre si baderà bene che il Commissario francese abbia ad usufruire largamente della sua ridicola posizione; e nulla possa intervenire per renderlo anco minimamente serio. (…) Conviene tentare tutte le vie per annullare la presenza del Leboeuf ed io pubblicherò anco prima il Plebiscito, se ciò potesse valere a questo fine; ma finche non abbiamo i Commissari a Venezia, a Verona e Mantova, temo inconvenienti. Credo però che più si stringeranno relazioni tra i due generali austriaco e italiano: più che l’austriaco vedrà l’impegno nostro di far partire le truppe austriache con decoro e più annulleremo la presenza stupida e inutile del Commissario francese vero camorrista su larga scala, che vuol profittare dell’altrui fatiche senza aver fatto uno zero."

Il 15 ottobre ci fu una discussione tra Leboeuf e Thaon di Revel che il commissario italiano riferì così al Ministro Visconti Venosta: "Il generale Leboeuf mi parlò lungamente del Decreto Reale col quale si vuol fissare il Plebiscito. Crede che ciò sarà considerato a Parigi come contrario agli accordi presi. Gli osservai che se non si faceva presto, vi sarebbe Plebiscito per acclamazione oppure che se ne asterrebbero per rispetto a quello del 1848. (…) Nelle provincie unite un decreto esser indispensabile (…) Mi rilesse per la centesima volta le sue istruzioni che lasciano ai notabili di determinare il Plebiscito. Gli risposi che così volendo non si troverebbero i notabili, o trovandoli non vi sarebbe più plebiscito. (…) Se non si fa prontamente il Plebiscito in un modo qualunque, non si farà più. Le popolazioni vi si rifiuteranno come cosa inutile, perché già fatto nel 48. (…) Per soddisfare la sua vanità, chieggo di essere autorizzato a far fare dai notabili una risposta insignificante al discorso ch’egli pronunzierà a nome dell’Imperatore, il quale rimarrà ignoto, perché non lo lascierò pubblicare dai giornali di Venezia." Visconti in risposta disse di far negare l’esistenza del decreto e di farlo risultare come delle semplici istruzioni ai Municipi veneti per far si che il Plebiscito si svolgesse regolarmente e senza irregolarità.

Parlando dei notabili da scegliere come rappresentanti del Veneto Leboeuf si disse preoccupato, ma come da istruzioni precedentemente ricevute la risposta di Thaon di Revel fu pronta ed efficace: "…Qual è la base sulla quale poggiate il vostro criterio per scegliere i notabili? – Avere delle persone notabili che rappresentano il Veneto, m’interruppe Leboeuf. – Benissimo, ma come potete essere sicuro della buona scelta? Chi ve ne da informazioni sicure, certe, coscienziose, e che non si rinchiudano in città ma comprendano tutto il Veneto? (…) Mi ammetterete che è desiderio dell’Imperatore e vostro che questi tre notabili rappresentino il Veneto. Come pure, che le tre città di Venezia, Verona e Mantova, costituiscano la parte più importante del Veneto. (…) Chiamate i rappresentanti di queste tre città, sono naturalmente i capi dei loro Municipii; a loro retrocedete il Veneto, e così farete l’atto in modo solenne, rispettando il principio d’autorità e senz’avere a temere qualche improntitudine offensiva per l’Austria dalla parte dei notabili.(…)." I nomi dei tre notabili furono poi suggeriti da Thaon di Revel, e furono De Betta, Emi-Kelder e Michiel

Il commissario Leboeuf voleva dare grande risalto al passaggio del Veneto ai notabili Veneti, questo però non era ben visto da parte del Governo Italiano che si adoperò per evitare ogni tipo di solennità. Si voleva inoltre che l’avviamento dell’occupazione italiana avvenisse prima del Plebiscito. Parlando ancora dei notabili che avrebbero dovuto rappresentare il Veneto, Thaon di Revel annota che "Scegliendo gl’individui che si proponevano da Parigi si creava un’autorità speciale sul veneto, che poteva dar luogo a qualche aspirazione autonoma od anche repubblicana per Venezia. Dovrebbero essi indire il Plebiscito od affidar
ne l’incarico ai Municipi? Era una questione che poteva sorgere e recare imbarazzi. Se invece i notabili fossero rappresentati dai capi dei Municipi principali; Mantova, Venezia e Verona, questi ricevuta la consegna, ordinavano subito il Plebiscito; l’azione governativa non rimaneva sospesa, e gli animi naturalmente portati a votare pel Regno d’Italia, non rischiavano di essere disturbati da faccendieri politici, ai quali all’uopo l’Autorità municipale, rinforzata dalla militare, avrebbe imposto il silenzio. Miniscalchi, Strozzi, Giustiniani ed altri eran degnissimi e perfettamente adatti per tale scelta, se non vi ostassero le considerazioni sovra esposte; perciò pensai bene, sin dai primi giorni, di esporre le mie idee a Ricasoli, fra le quali eravi quella di far sentire a quei signori, che sarebbero richiesti da Leboeuf, direttamente o per intermediario, che il Governo desiderava che essi declinassero l’invito. Mi riservavo poi di condurre Leboeuf, senza che si avvedesse del partito preso, a richiedere Michiel, De Betta ed Emi-Kelder."

Ritornando al decreto reale per il Plebiscito, questo fu pubblicato in un manifesto dal commissario civile a Treviso. Ciò, naturalmente, causò la reazione di Leboeuf che ritenne tale atto un insulto alla Francia: minacciò di non cedere più il Veneto, e di far sbarcare dalla propria nave ancorata a Venezia un distaccamento di marina. Leboeuf affermò che senza ulteriori ordini da parte di Napoleone nulla sarebbe stato fatto. A Thaon di Revel, nonostante avesse letto il Regio Decreto del 7 ottobre che stabiliva le date per il Plebiscito, fu ordinato di dire al Commissario Francese "che egli si sognava un Regio Decreto che non esisteva", e che era necessario fare quanto prima tale Plebiscito e che ogni atto che era stato pubblicato non era autorizzato. Queste dichiarazioni di Thaon di Revel bastarono a far calmare gli animi o comunque servirono a far ignorare quella palese violazione dei trattati; tutto stava procedendo come l’Italia si augurava: si stava estromettendo la Francia da ogni minima ingerenza, e si puntava a stabilire con l’ingresso delle truppe italiane nelle varie città lo status quo per ogni possibile rivendicazione successiva di territorio da parte di ogni qualsivoglia autorità.

Leboeuf affermò che senza ulteriori ordini da parte di Napoleone nulla sarebbe stato fatto. A Thaon di Revel, nonostante avesse letto il , fu ordinato di dire al Commissario Francese "che egli si sognava un Regio Decreto che non esisteva", e che era necessario fare quanto prima tale Plebiscito e che ogni atto che era stato pubblicato non era autorizzato. Queste dichiarazioni di Thaon di Revel bastarono a far calmare gli animi o comunque servirono a far ignorare quella palese violazione dei trattati; tutto stava procedendo come l’Italia si augurava: si stava estromettendo la Francia da ogni minima ingerenza, e si puntava a stabilire con l’ingresso delle truppe italiane nelle varie città lo status quo per ogni possibile rivendicazione successiva di territorio da parte di ogni qualsivoglia autorità.

L’intenzione di Leboeuf era quella di fare una cessione in grande stile, ma l’intento del Governo Italiano fu quello di far passare tutto in un tono minore, perché la presenza francese dimostrava che il Veneto non era stato acquisito con vittorie militari ma grazie ad un’intermediazione Francese. Thaon di Revel fece si che nel discorso del Commissario Francese durante la retrocessione ai Notabili del Veneto non ci fosse alcun riferimento al modo di votazione del Plebiscito e che ogni istruzione fosse riservata ai rappresentanti del Governo Italiano, desumendole dal "mai emesso" Decreto Reale.

Il 19 ottobre 1866 ebbe luogo la consegna di Venezia e del Regno Lombardo-Veneto fatta dall’Austria alla Francia. Poi ci fu la retrocessione del Veneto da parte della Francia alle autorità municipali, tutto si svolse in un camera dell’albergo Europa e senza la minima solennità. È da notare un passo del discorso fatto da Leboeuf a nome dell’Imperatore Napoleone III: "Mais, pas respect puor les droits des nationalités et puor la dignité des peuples, l’Empereur a voulu laisser aux Vénitiens le soin de manifester luer voeu".

Poi come da disposizioni già ricevute, ogni appello francese ad un giusto Plebiscito venne ignorato, i tre notabili si affrettarono ad eseguire gli ordini del Governo Italiano e quindi tre giorni prima della data del Plebiscito (anch’essa stabilita dal Regio Decreto) il Veneto fu consegnato al Regno d’Italia. La formula per il Plebiscito, come prevedeva il Regio Decreto del 7 ottobre, era la seguente: "Dichiariamo la nostra unione al Regno d’Italia sotto il governo monarchico costituzionale del re Vittorio Emanuele II e de’ suoi successori". Il voto doveva essere espresso con un sì, od un no, per mezzo di un bollettino stampato, o manoscritto.

L’intervento di Napoleone III risolse ogni problema italiano sia d’umiliazione, sia per quanto concerne il diritto: furono evitate le bandiere francesi, e fu evitato di interrogare la popolazione a riguardo del tipo di governo che voleva, tutto si doveva semplificare attraverso un si o un no a riguardo di un dato di fatto (l’occupazione militare del Veneto).

Il Plebiscito si svolse il 21 e 22 ottobre e tutto procedette come il governo italiano aveva previsto, prima della conclusione delle votazioni già si predisponeva l’arrivo del Re a Venezia e in tutto il Veneto. Thaon di Revel tiene a sottolineare che il ritardare l’arrivo del Re al 7 di novembre avrebbe avuto come risultato il venire meno dell’entusiasmo della gente a confronto del 19 di ottobre, come poi fu dato verificare. Altra cosa che il Commissario Italiano tende ad affermare è che "Si può dire coscienziosamente che tutti i Veneti erano per la monarchia costituzionale di Vittorio Emanuele. Nessuno pensava alla repubblica veneta." Sempre Thaon di Revel scrive che non ci fu nessuna dimostrazione clamorosa, ma una gioia intima universale che rendeva i Veneziani tutti amici fra di loro. Gli ovvi risultati di un Plebiscito preparato in tal modo dal Governo Italiano furono resi pubblici il giorno 27 dal presidente della Corte d’Appello di Venezia Tecchio (altro funzionario del Governo Sabaudo): la corte d’Appello doveva controllare la regolarità della votazione. La somma dei voti del Plebiscito fu 641757 si, 69 no, 366 nulli.

Perché riportare tutta questa serie di corrispondenze e di documenti a riguardo dell’operato di Thaon di Revel in Veneto? Per constatare un dato di fatto, ovvero che il tutto non si svolse in modo chiaro, anzi si cercò ogni mezzo per insabbiare questa trattativa tra Austria, Francia, e Italia. In questo scritto di Thaon di Revel ho voluto trovare quegli indizzi che mi consentono di intravedere come i fatti si siano svolti, o meglio di notare quali siano le incongruenze, più o meno volute, annotate dal commissario italiano.

Cosa che mi lascia alquanto perplesso leggendo questo libro sono i due paragrafi dove si accenna alla repubblica Veneta, sembra che la preoccupazione principale sia l’eliminare ogni possibilità del ritorno della Repubblica. Ma cosa mai poteva preoccupare il governo italiano dato che solo 69 persone si espressero per il NO? Allora torna subito alla mente il fatto che ogni occasione era lecita per eliminare dalle trattative la Francia, che voleva (naturalmente per indebolire sia l’Austria che l’Italia) che la consultazione fosse regolare e ch
e l’ingerenza del Regno d’Italia fosse minima.

Altri fatti sembrano porre altri quesiti in merito alla condotta del Governo italiano, oltre al famoso decreto del 7 ottobre di cui poi si negò l’esistenza: si tentò di non far rientrare nelle proprie città i reduci volontari ed emigrati; si accusò il popolo (a cui si faceva sempre appello per devozione alla causa italiana) di un omicidio di uno jager austriaco, al solo scopo di difendere i soldati piemontesi; non furono scarcerati i prigionieri politici (come previsto dagli accordi di Pace) appartenenti alle bande armate del Friuli e del Bellunese e i militanti del Partito d’Azione perché osteggiavano ogni governo legalmente costituito; alcuni giorni prima del Plebiscito su ordine di Ricasoli furono versate 10000 lire a beneficenza degli operai veneti senza lavoro. Tra le truppe italiane dirette a Venezia c’era il problema del colera, e per evitare una sommossa da parte della popolazione all’entrata dell’esercito nella città si decise di avere la complicità dei più rinomati medici e di sovvenzionare i lavori di bonifica delle zone infestate e di stanziare fondi per le famiglie che già erano state contagiate in città: per far si che tutto passasse sotto silenzio e che l’entrata delle truppe, ritenuta indispensabile, nonostante l’appoggio delle popolazioni, avvenisse.

Il primo ottobre 1866 per ordine del governo italiano fu deciso di nominare senatori le persone più in vista del Veneto, stando alle parole di Thaon di Revel nella lista non furono compresi, nonostante fossero idonei e meritevoli, i conti Andrea Cittadella e Marcello perché avevano appoggiato l’arciduca Massimiliano, nella speranza di avere un regno Lombardo-Veneto costituzionale, non volendo l’unificazione dell’Italia.

All’arrivo del Re in Venezia per avere un effetto positivo sul popolo si decise di elargire 100 mila lire alle famiglie povere invece che disimpegnare i piccoli pegni depositati al Monte di Pietà, essi ammontavano a più di 765128 fiorini, tale operazione fece guadagnare molto alle casse del regno.

Altra preoccupazione di Thaon di Revel che a me sembra strana, dato che il popolo Veneto era entusiasta dell’unione all’Italia, fu il fatto che insisteva presso il governo di avere i carabinieri appena fatta la cessione per sostituire la Guardia Nazionale, cosicché i regi carabinieri potessero vigilare durante il plebiscito.

Questi atti sembrano prevedibili se si stesse parlando di colonizzazione o di occupazione di una terra ostile, paiono invece strani dato che si trattava di una terra in cui le persone contrarie all’unità erano solo 69. Quindi il dubbio e l’interrogativo che ci siamo posti rimane: era così unanime la volontà di essere annessi all’Italia o ci fu uno stravolgimento diplomatico da parte d’Italia, Francia e Austria che portò a tali risultati nel plebiscito?

 

 

 

 

Ettore Beggiato

1866: la grande truffa

Il plebiscito di annessione del Veneto all’Italia

Prefazione di Sabino Acquaviva

Editoria Universitaria – Venezia 1999

 

In questo scritto Ettore Beggiato tratta del plebiscito del 1866 che unì il Veneto all’Italia, ne parla in modo diverso rispetto ad altri libri di storia che analizzano il medesimo periodo, scrive evidenziando quale fosse il sentire del popolo rispetto agli avvenimenti che lo stavano coinvolgendo. Dal suo punto di vista, questo libro vuole ribaltare la storia scritta da chi poi ha preso il potere, e vuole ristabilire nuovi punti di partenza per ripercorrere i vincoli che stanno tuttora unendo il Veneto all’Italia. Questo libro è una sorta d’inchiesta per ristabilire se tutti gli avvenimenti si svolsero con le regolarità del caso, e per mettere in luce un argomento poco trattato dai manuali di storia.

Il plebiscito fu frutto degli accordi internazionali successivi alla guerra Austro-Prussiana e Austro-Italiana del 1866 (terza guerra d’indipendenza), in cui sia per terra che per mare il regno d’Italia subì umilianti sconfitte.

Il plebiscito, come dice Beggiato, fu una truffa a danno del popolo veneto e non era un fatto isolato in Italia in quel periodo: truffa furono tutti i plebisciti che sancirono l’unità dell’Italia sotto il dominio dei Savoia. I plebisciti non risultarono altro che delle truffe per confermare quale fosse il volere di chi quei plebisciti indiceva.

Beggiato tende a sottolineare quale fosse l’attaccamento del popolo Veneto alla Repubblica Veneta (sia quella dei Dogi, sia quella di Manin) e ciò che essa rappresentava nell’immaginario collettivo; fatto emblematico è il grido di "viva San Marco" dei marinai istro-veneti (arruolati nella marina asburgica) nella famosa battaglia di Lissa. Beggiato nella sua esposizione fa presente che fu intento dei vari governi che si susseguirono alla guida dell’Italia eliminare o quantomeno arginare ogni identità locale.

I trattati internazionali sottoscritti dalle varie parti in causa nel 1866 (Austria, Prussia, Italia e Francia) riconoscono al popolo Veneto il diritto di scegliere il proprio futuro, successivamente questo diritto sarebbe stato chiamato diritto all’autodeterminazione.

Nella questione del 1866 riguardante il Veneto emerge un attore inaspettato: la Francia, essa compare perché l’Austria non avendo perso sul campo alcuna battaglia con l’Italia decide che il Veneto può essere ceduto esclusivamente ad uno stato terzo che si assuma la responsabilità di fare da garante rispetto ai destini delle terre venete.

Il plebiscito fu visto come una festa che coinvolse tutto il Popolo Veneto; questo è quanto scrive la storiografia ufficiale, ma ci sono documenti che mettono in dubbio il fatto che la festa fosse spontanea e non indotta da fattori esterni. "Garibaldi si infuriò perché i Veneti non si erano sollevati per conto proprio, neppure nelle campagne dove sarebbe stato facile farlo", ciò fa nascere scetticismi rispetto all’effettiva condivisione e consapevolezza dei Veneti rispetto agli atti che li stavano coinvolgendo.

Beggiato riporta quanto ha scritto (3/8/1866) l’ambasciatore asburgico Metternich a Parigi il quale ritiene possibile arrivare all’indipendenza della Venezia sotto un governo autonomo com’era la vecchia Repubblica. Altre testimonianze che fanno sorgere dei dubbi rispetto al fatto che tutti volessero l’unità del Veneto all’Italia sono riportate nella corrispondenza del commissario Francese Leboeuf e di quanto scrivono i comuni. L’esito della votazione fu scontato dato che la presenza dell’esercito italiano sul territorio Veneto era massiccia, però è bene ricordare che su una popolazione di circa 2.500.000 di abitanti votarono solamente in 650.000.

Minacce in caso di voto contrario all’unità con l’Italia arrivarono ai parroci veneti, ricordando loro che in caso il voto non fosse stato unanime per il SI sarebbe stato difficile contenere qualche "pubblica e dolorosa soddisfazione" nei loro confronti.

< div align="justify">Altro avvenimento indicativo è che a Valdagno solo il 30% della popolazione andò a votare, ma i libri dicono che in tutto il Veneto la popolazione era concorde nel votare l’unità all’Italia: come mai questa incongruenza? La risposta risiede nelle modalità con cui si svolsero l’intera votazione e la campagna di propaganda che la precedette. "Le autorità comunali avevano preparato e distribuito dei biglietti col si e col no di colore diverso; inoltre, ogni elettore, presentandosi ai componenti del seggio, pronunciava il proprio nome e consegnava il biglietto al presidente che lo depositava nell’urna". Altre istruzioni per il plebiscito recitavano così: "Vi devono essere due urne separate, una sopra un tavolo, l’altra sopra l’altro.(…) Sopra una sarà scritto ben chiaro il Sì, sopra l’altra il No.(…) I protocolli sono due, – uno pei votanti che presentano il viglietto del Sì, l’altro dei votanti che presentano il viglietto del No, per modo che il numero complessivo dei viglietti che, finita la votazione, si troveranno in ciascheduna urna, dovrà corrispondere all’ultimo numero progressivo del protocollo."

I manifesti per il plebiscito, per quello che dicevano, erano una sorta di ricatto morale a chi andava a votare, in uno di questi si può leggere: "Chi dice Sì mostra sentirsi uomo libero, padrone in casa propria, degno figlio d’Italia. Chi dice No la prova d’anima di schiavo nato al bastone croato! Il Si, lo si porta all’urna a fronte alta, sotto lo sguardo del sole, colla gioja nell’anima, colla benedizione di Dio! Il No, con mano tremante, di nascosto come chi commette un delitto, colla coscienza che grida: traditore della patria!" La Gazzetta di Verona il 17 ottobre 1866 parlando del plebiscito riporta: "Sì, vuol dire essere italiano ed adempiere al voto dell’Italia. No, vuol dire restare veneto e contraddire al voto dell’Italia". Come mai sottolineare l’essere veneto? Non erano forse tutti per l’unità? Questo mi sembra uno dei vari elementi che mettono in dubbio il fatto che i risultati del plebiscito non siano la risultante della reale volontà della gente veneta. Per concludere quanto Beggiato ha affermato a proposito del plebiscito viene riportato quello che succedette nel 1903 allo storico Luigi Sutto di Rovigo che fu incaricato dal Museo del Risorgimento di ricostruire dati ed episodi del Plebiscito. Il suo insuccesso fu quasi totale perché non riuscì a visionare i verbali del plebiscito. Perché gli fu vietata tale visione?

Beggiato dopo aver posto degli interrogativi sulla veridicità dei risultati del plebiscito, passa ad analizzare ed a elencare cosa causò ai veneti l’essere uniti al regno d’Italia. Dopo il 1866 iniziò una vera e propria diaspora della gente veneta verso i continenti d’oltre oceano, e per coloro che rimasero iniziò una lunga sofferenza segnata da tasse, fame e miseria. L’unità al regno d’Italia per il Veneto ben presto si trasformò in una vera occupazione: "il governo italiano a confronto dell’Austria aveva tre volte tanto di regolamenti, tre volte tanto di personale di pubblica sicurezza, di carabinieri…" Il governo italiano arrivò a proibire le tradizionali processioni religiose in quanto assembramento pericoloso per l’ordine pubblico.

Nel periodo post unitario tra la gente veneta videro la luce molte filastrocche che denigravano l’Italia, gli italiani e i Savoia; ciò rispecchia il disagio che regnava tra i Veneti. Questo disagio come ho detto è dovuto anche al fatto che per vari decenni il Veneto fu la regione con la più alta percentuale di emigranti: cosa aveva avuto se non quanto appena detto il Veneto dall’unità all’Italia? Ecco, è proprio questo l’interrogativo che si ripete nelle pagine scritte da Beggiato. Io dopo la lettura del suo libro non posso che associarmi a Beggiato in questa domanda che tende a diventare un vero e proprio enigma se si collegano le riflessioni riportate in altri libri, gli stessi libri pubblicati dagli storiografi del Regno d’Italia. È necessaria per gli anni a venire una rilettura di quanto successe in Italia nell’epoca dei plebisciti, per stabilire quale sia la reale successione dei fatti. Nulla può più danneggiare una storia di un Paese che la negazione dei fatti realmente avvenuti, altrimenti si rischia di trovare un presente come quello che Orwell nel suo libro "1984" ha suggestivamente descritto. Questa negazione o revisione del passato ad uso e consumo di chi sta al potere non è un fatto isolato al 1866 ma è una pratica che si perpetua spesso in ogni Stato. È risaputo che la storia spesso è scritta da chi ha vinto. A mio avviso per affrontare il futuro è necessario avere consapevolezza di cosa nel passato sia realmente accaduto; la memoria storica è il bagaglio che ogni popolo porta con sé, senza la quale viene a mancare la consapevolezza del proprio essere.

 

 

 

Giuseppe Solitro

I Veneti nella preparazione e nella guerra del 1866

(con documenti inediti e rari)

VENEZIA- Premiate Officine Grafiche Carlo Ferrari

1932 – Anno X E.F.

 

Giuseppe Solitro scrive questo libro sui fatti svoltesi in Veneto nel 1866, durante il periodo fascista, quindi il libro ha una chiara impronta nazionalista, conforme al pensiero unico, e evidenzia l’inevitabilità del processo storico che portò all’annessione del Veneto da parte dell’Italia.

Nonostante la parzialità di chi ha scritto il libro, influenzato dal clima che si respirava nell’Italia fascista, si riescono a notare parecchi segnali che fanno sorgere dei dubbi a riguardo dell’unanime volontà dei Veneti all’unità con l’Italia.

È da notare che lo stesso autore sottolinea che le rivendicazioni nazionali in Veneto, come nel resto della penisola, vennero da una minoranza. A conferma di ciò, è ormai noto che i primi tentativi battuti dal governo del Regno per l’acquisizione del Veneto furono fatti tramite dei mediatori che promisero forti somme di denaro per l’acquisto del Veneto dall’impero austriaco, qui emerge che il Governo Italiano non era interessato a consultare le popolazioni venete. A Vienna l’opinione pubblica non voleva cedere il Veneto, nemmeno in cambio di denaro, e questo fu uno dei motivi che fece naufragare la trattativa.

Poi la questione Veneto fu merce per le beghe elettorali per il rinnovo del parlamento, sciolto per il trasferimento della capitale del regno da Torino a Firenze. Tutti si facevano portabandiera del patriottismo e sostenevano avrebbero fatto quanto possibile per redimere le terre sotto la dominazione austriaca.

Punto focale della ricerca e del lavoro di Solitro è stato il prendere in esame i Veneti che volevano l’unità al Regno d’Italia, questi erano raggruppati all’interno dei Comitati segreti nazionali, e come punto di riferimento avevano il Cavalletto (punto d’unione tra l’emigrazione veneta e il governo italiano). Varie furono le strade battute da questi comitati, sia all’interno del Regno d’Italia sia all’interno dell&r
squo;Impero asburgico (l’Ungheria) ma entrambe diedero pochi frutti e molte delusioni.

La titubanza della classe dirigente italiana fece nascere molti dubbi a chi nel Veneto voleva scacciare l’Austria, perché ogni azione dei mediatori italiani per l’acquisizione del Veneto era debole e nessuno voleva inizialmente impegnarsi in una guerra. La perplessità dei veneti fu chiamata impreparazione, mancanza di fermezza, non disponibilità alla resistenza.

L’unico Stato in Europa che fece da sponda all’Italia per l’affare Veneto fu la Prussia, interessata all’egemonia nell’area tedesca e quindi ad un indebolimento dell’Austria; per far ciò risultava utile un impiego militare dell’Italia nei confini sud dell’impero, esclusivamente nel Veneto e non in altre aree (Tirolo, Istria).

Quando il patto Italo-Prussiano era già sancito l’Austria propose all’Italia la cessione del Veneto per evitare di dover combattere su più fronti, tale proposta fu rifiutata perché troppe erano le accuse di tradimento mosse dalla Prussia.

Ritornando ai Comitati segreti, questo periodo è ricco di corrispondenza sul da farsi e su come gestire la mobilitazione dei Veneti. Il Cavalletto sconsiglia l’arruolamento di volontari, e propone che questi rimangano nel Veneto a preparare la guerriglia, forte è la diffidenza nei corpi garibaldini o simili che non combattevano chiaramente per la Monarchia ma per l’ideale di libertà. Questa sfiducia nei volontari è sintomatica e mostra già come era considerato il popolo: un’entità di cui diffidare perché metteva in dubbio l’ordine costituito.

Il Cavalletto nelle settimane imminenti la guerra venne aggregato all’Ufficio informazioni (servizi segreti), ma si trovò solo a dirigerlo. Ciò qui si afferma cozza con quanto spesso viene ripetutamente detto nelle pagine di questo e di altri libri: ossia che il popolo veneto sia emigrato, sia ancora nelle Venezie fosse in gran numero pronto al servizio alla patria italiana; se questo popolo c’era, in questo momento cruciale per le sorti del Veneto, come mai non era a fianco dei comitati segreti?

Il 20 giugno 1866 l’Italia dichiarò guerra all’Austria.

I giovani veneti erano spinti dai comitati segreti presenti nelle città ad arruolarsi per l’Italia, mentre chi vi si rifiutava era insultato. I numeri di chi partiva per arruolarsi erano di 100-200, stando a quanto riferisce la polizia austriaca che preferiva lasciarli partire, dato che il numero era esiguo, che averli nelle retrovie.

I comitati bellunesi ridimensionarono le voci a riguardo i disertori presenti nella propria zona, affermando che le voci affermavano essere 40, ma loro ne hanno visto solamente 4 e questi sono gente di dubbia volontà.

Durante tutta la guerra del 1866 vengono accusate le popolazioni rurali (maggioritarie in Veneto) perché dominate dal gendarme e dal prete. Mentre sul basso Po (zona di Rovigo) il servizio d’informazioni procedeva egregiamente, e gli informatori erano tutti gente per bene; nel linea del Mincio gli abitanti delle campagne veronesi erano intimiditi e alieni a correre rischi, sia pure per la causa italiana. Solitro riporta che nelle città come Verona e Mantova, si erano stabilite relazioni con persone fidate, ma appena si avvicinò la guerra, esse non si fecero più vive. Quindi si dovette ricorrere a una sorte di mercenari che alle prime avvisaglie di guerra si dileguarono. Ciò fa emergere quella serie di incongruenze rispetto al fatto che si era disposti a tutto per l’unione del Veneto all’Italia. Lo stesso Cavalletto accusa chi operava nel veronese di inerzia rispetto a quanto era necessario per l’unità d’Italia, e inoltre incolpa Verona come la città del Veneto che meno s’impegnava per sostenere le operazioni dell’esercito.

Prima della conclusione della guerra si pensava già il da farsi per la futura amministrazione del Veneto occupato, mentre si pensava a chi affidare l’ufficio di commissari regi per la reggenza delle province, emersero due scuole di pensiero: una che per l’incarico dovessero essere scelti i Veneti stessi; l’altra che sosteneva la necessità di scartare i commissari indigeni perché non adeguati per capacità e idee politiche (repubblicane). Quindi il timore che permane è che qualcuno avesse idee politiche diverse da quelle monarchiche, e quindi ogni opposizione doveva passare sotto silenzio ed essere emarginata.

L’opera di staffetta dei veneti che combattevano per l’Italia era osteggiata dagli stessi veneti che erano sotto il servizio dell’Austria; uno di questi episodi è riportato dal Solitro, quindi in alcuni emergono delle sfumature da guerra civile.

Il partito d’Azione era perplesso su che posizione prendere rispetto la guerra che andava iniziando dato che come lo stesso Mazzini, interrogato in merito, disse: "Il continuare a dire: vogliamo una guerra d’iniziativa popolare, quando nessuno risponde, in verità è ridicolo. La questione politica rimane la stessa… Ma astenersi, in verità non ha senso, né moralità". Quanto disse Mazzini non convinse tutti. Però il Cavalletto cominciò anch’esso ad appoggiare la formazione delle bande armate. Tranne che da un’esigua minoranza, l’adesione alla guerra non era condivisa dal popolo: è ciò che emerge da quanto Mazzini afferma.

L’impressione è che tra le genti venete fosse latente l’impressione che ogni impegno in questa guerra fosse inutile, anche perché ci si esponeva a rappresaglie da parte delle forze in ritirata. L’apatia della gente a questa guerra fu fatta anche risalire all’esito della battaglia di Custoza e all’improvvisa e inattesa cessazione delle ostilità. Gli stessi comitati veneti dopo Custoza non credettero più a quanto l’Italia prometteva e non erano più disposti a essere i portabandiera di illusioni, in cui i loro conterranei potevano morire.

Da questa sequela di fatti riportati emerge che l’impegno maggiore di chi combatteva tra i volontari era, come diceva il Giacomelli (legato al partito d’Azione): "…quando si tratta di combattere l’Austria, io ci sto con tutti", quindi più che essere per il regno d’Italia si era contro l’occupante austriaco.

Uno degli informatori della zona di Udine esprimeva l’opinione che vi erano sia armi che camicie per armare e vestire i volontari, ma non c’era la garanzia che a tempo debito vi fosse la gente. L’informatore continua lamentandosi di essere rimasto solo, mostrandosi sfiduciato dell’insurrezione sui monti. Questo è un altro segnale che mostra l’incertezza del fatto che la gente abbia unanimemente appoggiato la rivolta a favore dell’Italia.

Altri furono mandati ad arruolare volontari nelle vallate del Cadore e di Udine, ma tutto proseguiva a rilento: la formazione del corpo, la reperibilità delle armi, il proseguimento della guerra (terminata troppo presto). Questi fattori portarono allo scioglimento delle bande di volontari senza che la gran parte di esse fosse impegnata in veri scontri. Finché furono in vita le bande necessitarono di avere degli ufficiali per comandare; i servi
zi d’informazione affermavano che c’era mancanza assoluta di capi autorevoli e capaci e che era importante continuare la ricerca per avere quanto prima degli ufficiali a capo delle bande.

La conclusione del Cavalletto fu che i Comitati interni al Veneto non bastavano per condurre a termine positivamente la campagna del 1866, ma era necessario l’intervento del Governo per qualche svolta nella guerra. Difatti le offerte private non bastavano, e solo nella zona di Padova si sperava di raccogliere qualche finanziamento: questa serie di fatti metteva in crisi i comitati segreti veneti soprattutto quelli esteri.

È noto quali siano state le vicissitudini da parte dell’esercito italiano durante la guerra del 1866 e quale l’anarchia che regnava tra le varie divisioni. Inizialmente il Solitro riporta l’accusa del Cavalletto rivolta agli informatori presenti dietro le linee nemiche affermando che "…fu fatale che da Verona non ci siano state mandate mai notizie recentissime, e che, in difetto di uomini coraggiosi non si sia adottato a tempo il mezzo dei piccioni. …".Continuava affermando che chi si era impegnato, aveva mancato le promesse date. Altri attribuivano ogni colpa ai preti e al dispotismo che avevano reso impossibile ogni comunicazione intimorendo la gente. Solo anni dopo le colpe furono ricondotte al Quartier generale che non aveva trasmesso le informative. A chi si doveva dar ragione?

Cosa intervenne a favore dell’Italia? La vittoria prussiana con la conseguente minaccia incombente su Vienna. Ciò provocò il panico in Austria e quindi fu subito offerto il Veneto alla Francia perché facesse da mediatrice con l’Italia. I veneti che combatterono per l’Italia furono offesi da questa offerta, preferendo all’umiliazione l’occupazione austriaca. L’Italia, vedendosi isolata a livello internazionale e frazionata internamente, fu costretta ad accettare la mediazione francese attraverso l’intervento di Napoleone III.

I comitati segreti lamentavano ripetutamente il fatto della prematura sospensione delle ostilità perché rimanevano sotto il dominio austriaco ancora molte altre terre: il Tirolo, l’Istria e la Dalmazia. La progressiva occupazione militare delle province venete continuò; per il Governo Italiano era necessario mettere di fronte l’Austria ad un dato di fatto in prospettiva alla successiva Pace.

Ora con la presa di possesso delle città il compito dei comitati segreti era quello "…di sgomberare il terreno di coloro ch’erano rimasti per una ragione, o per l’altra fedeli al cessato governo, perché non intralciassero l’opera dei Municipi liberi e dei Governi provvisori quivi stabiliti." Il foglietto che era fatto girare a coloro che parteggiavano col vecchio governo citava: "Signore: vi sono dei momenti nei quali per certe persone non esiste miglior partito che farsi dimenticare. Ella è una di questa. Noi la consigliamo quindi a non cercare con l’intrigo e con la cabala d’ingerirsi negli affari del Municipio, mentre il paese userà d’ogni mezzo per controperare a’ suoi scopi". Queste righe mostrano quali fossero le minacce che circolavano e quale il clima tra la gente: un clima intimidatorio e di estrema tensione di tutte la parti in causa (Italia, Austria e Francia), chi ne faceva le spese era la popolazione civile, trattata come merce di scambio di cui si ignoravano volutamente quali fossero le vere aspirazioni.

Si tentò di far pressione sulle truppe ungheresi operanti in Veneto e sulle truppe venete operanti in Prussia, si incitarono le stesse a sollevarsi contro l’Austria ma ciò non ebbe alcun effetto: questa è un’altra spia che indica che i governi ben poco sapevano cosa pensasse il popolo; i soldati Veneti che tornarono in Italia furono solo quelli presi prigionieri dai prussiani.

L’Italia dovette cedere definitivamente alle pretese Prussiane, Austriache e Francesi dopo aver perso la Battaglia navale di Lissa, la perse con ignominia, come perse la Battaglia terrestre di Custoza. Le condizioni poste all’Italia furono lo sgombero del Trentino e della Venezia Giulia, e la cessione della Venezia ad un commissario francese, che doveva consegnarla alle autorità venete, subordinatamente al consenso delle popolazioni, chiamate ad esprimere plebiscitariamente la loro volontà. Il 7 ottobre esce un decreto reale che invitava le popolazioni al plebiscito, questo esautorava di fatto la Francia dal ruolo che la Pace di Vienna le aveva dato (garante della regolarità del plebiscito); Solitro riporta che a riguardo del Plebiscito c’erano varie scuole di pensiero: "…superfluità dopo le molteplici manifestazioni della volontà dei Veneti, nel ’48 e nel ’59; altri una inutile concessione all’ingerenza francese; altri infine un’incognita pericolosa da doversi evitare ad ogni costo." A Ricasoli pervenivano informative che sostenevano che sul plebiscito c’era l’ombra dei preti e contadini, di chi lavorava per l’Arciduca Massimiliano, di chi parlava dell’utilità di un’autonomia veneta, e di chi istigava all’astensione.

Sebastiano Tecchio, nominato dall’Italia presidente della corte d’appello di Venezia il 27 ottobre, proclama i risultati del Plebiscito, che nonostante tutte le perplessità ebbe un risultato mai visto prima in nessun altro plebiscito: 641.757 si, 69 no, 366 nulli.

I risultati del Plebiscito furono consegnati nelle mani del Re a Torino, nonostante la capitale fosse Firenze, e c’è chi scrisse che si volle questo per "serotina vanità del Re savoiardo, e per affermare contro il concetto della cresciuta italianità la nuova conquista regia"

Subito dopo l’annessione ci furono molte rimostranze da parte dei Veneti, che videro che l’unità aveva prodotto più illusioni che dati di fatto, la risposta fu che questo sfogo era di chi aveva perso dei benefici e lucri passando al nuovo governo, e che queste rimostranze non appartenevano al popolo (lo stesso popolo che qualche mese prima era stato accusato di essere succube dei preti).

Concludendo questa carrellata di fatti riportati dal Solitro sul comportamento dei veneti nel 1866 da me selezionati in modo da evitare apologie nazionaliste di sorta, voglio ulteriormente evidenziare come i 69 no siano una forzatura storica frutto evidentemente di numerosi brogli elettorali. Gli stessi che appoggiarono l’unità del Veneto all’Italia ben presto se ne dissero pentiti, ecco quanto è riportato dai giornali del 1867 a proposito di nomine pubbliche: "Che si crede che il Veneto sia una vallata Savojarda di cretini, o la Beozia del Regno? No non è così che si tratta la povera Venezia, condannata a raccogliere le miche dell’impieghi, mentre a sopportato anche troppo la parte da bestia da soma sotto l’Austria. Abbiamo anche qui gente che può sostenere una prefettura, un dicastero di finanza, una direzione delle poste, una questura, e si rimandino questi favoriti ai loro seggi anche troppo ben rimeritati per le opipare provvigioni che porteranno seco di straordinarie panciali".




L'impresa della flotta serenissima

 

Risalì l’Adige fino a Mori e trasferì le galere a Torbole

 

 

A Verona il 15 febbraio1439 è una giornata fredda e grigia, un po’ nebbiosa come spesso succede d’inverno: ma un avvenimento inconsueto sta per accadere perché a metà del mattino emerge nella nebbiolina una grava veneziana, seguita da una vera e propria flotta da guerra, formata, pare, da altre 5 galere, 4" belinzieri" e una ventina di barche armate minori, tutte al comando dell’ammiraglio della Serenissima Stefano Contarini. Venezia- che aveva preso possesso di Verona fin dal 1405- è in guerra da 1 anno col milanese Filippo Maria Visconti, e in questo momento è in difficoltà perché l’esercito veneto è stato costretto a ritirarsi a Padova, avendo fallito il tentativo di liberare Brescia (pure appartenente a Venezia), già da tempo assediata dai viscontei. Bisogna rompere dunque quest’assedio e per riuscirci il senato veneziano decide di mandare in gran segreto una flotta nel lago di Garda, per cercare di prendere alle spalle gli assedianti: è una mossa strategica brillante, che per essere realizzata deve però superare ostacoli così pesanti da divenire- se ci riuscirà- addirittura motivo di" stupore e di miracolo" per i posteri. Attaccano dunque le navi alla riva dell’Adige, a Ponton, e una folla di manovali, che le attende, inizia subito a smontare le navi più grandi (le galere sono scafi lunghi 40-50 metri e larghi 6-7) privandole degli alberi, delle vele, dei remi e presumibilmente delle bombarde, delle munizioni e di quant’altro sia asportabile. Il programma prevede di calcare tutti questi materiali su carri tirati da buoi, per mandarli verso Mori, dove li raggiungeranno per via d’acqua le navi, ridotte a semplici scafi: di qui l’intera teoria dei natanti e dei materiali sarà trasferita a Torbole, dove finalmente le barche verranno rimontate e varate nelle acque del Garda. Il disegno di far procedere fino a Mori gli scafi, sia pure così alleggeriti, non è per altro di facile soluzione, anche perché in febbraio l’Adige è di regola in regime di magra. Sta’ di fatto che, adottando l’antico uso di far trainare le navi da molte paia di buoi, e accettando naturalmente tempi molto lunghi (del resto fino all’800 il tratto Verona-Trento richiedeva 5 giorni)- si riesce a completare il viaggio. Ma è proprio a Mori che inizia la parte più difficoltosa dell’intero tragitto. Torbole può essere raggiunta attraverso la valle di S. Andrea (oggi chiamata valle di Loppio), ma affrontando un terreno impervio, ricco di dislivelli anche scoscesi. Un gran numero di braccianti traccia uno strùcciolo, una via abbastanza larga da consentire il passaggio delle galere, lo spiana, lo batte, lo ricopre di rami tagliati e di cespugli strappati e trascina quindi, con l’aiuto dei buoi e di corde ma anche viva forza di braccia, le galere e dietro di esse tutto i più piccoli "scaffe e burghi"- che avevano raggiunto Mori senza difficoltà, trattandosi per lo più di barche a fondo piatto. A "Tòrbole borgo dè pescatori", la flotta viene immersa finalmente nelle acque del Garda: una sola galera ritarda, avendo bisogno di essere "racconciata e ripalmata" dopo gli urti e gli strisci ai quali è stata sottoposta. Si è completata così un’impresa eccezionale per intelligenza e arditezza che, lo storico Marin Sanudo descrive con una frase tanto concisa quanto scultorea: le galere furon "disfate,su cari fabricate, di l’adese in questa aqua portate e riconzate,nel lago butate" .L’occasione da far entrare in battaglia la flotta così arditamente portata nel Garda non giunge però subito: tarderà più di un anno, fino al maggio 1440, quando Stefano Contarini affronterà vittoriosamente la flotta viscontea, conquistando i castelli di Riva e di Garda. La guerra, cosiddetta "Veneto-Viscontea", si concluderà nel 1441 con la pace di Cavriana, che ratificherà il possesso veneto di tutto il territorio a est dell’Adda.

 

 

 

I fiumi padani, invito alla guerra <anfibia>

Non è dato sapere quanto abbia contato l’impresa "veronese" sull’esito della guerra. Ma sappiamo che il suo interesse è comunque notevole perché indica la strategia generale che la Serenissima si dà in questo come nei conflitti successivi che la opporranno ai visconti tra il 1438 e il 1454. La Lombardia, teatro di queste guerre, è ricca di fiumi laghi e corrente poco impetuosa e costituisce per Venezia un grande invito ad adottare l’acqua, accanto al terreno, come teatro degli scontri. Le flotte fluviali- che i veneziani subito allestiscono impegnando natanti diversi, che vanno dai navigli a remi, ma armati, alle grandi galere d’alto mare- assicurano anzitutto rifornimenti e trasporti alle truppe di terra, ma consentono inoltre di effettuare attacchi flessibili ed efficaci con le loro specifiche armi da fuoco- bombarde e bombardine. E offrono soprattutto alla Repubblica l’occasione di impiegare i suoi tradizionali e collaudati equipaggi misti di veneziani e dàlmati, ben più sperimentati e affidabili delle milizie di terra, con i loro sempre diversi caoitani di ventura. E’ in definitiva un disegno strategico di guerra " anfibia" che estende al "dominio da tera" i concetti e i mezzi che hanno sempre ispirato la conquista del "dominio da mar". I fiumi ai quali la Repubblica adatta questo disegno non sono soltanto i corsi d’acqua lombardi: ma anche il Po, l’Adige e i fiumi veneti, friulani e giuliani, di cui Venezia controlla saldamente foci, corsi e accessi.




L’insorgenza delle Pasque Veronesi: anima popolare della Veneta Serenissima Repubblica



…Il legame indissolubile con la nostra Veneta Serenissima Repubblica nonostante siano passati due secoli, non è stato ancora reciso benché le forze del male abbiano impiegato ogni mezzo per
spezzare questo legame millenario tra il Veneto Popolo e la Veneta Serenissima Repubblica…
Luigi Faccia
Presidente del Veneto Serenissimo Governo

 

Tra il 17 e il 25 aprile 1797 vi fu a Verona, ma non solo, una grande e spontanea sollevazione popolare contro l’invasione della Veneta Patria da parte delle forze Napoleoniche. Ancora una volta come quasi tre secoli prima, durante la guerra di Cambray, il Veneto Popolo (contadini, artigiani, operai e soldati) sente in anticipo il pericolo mortale che incombe nella propria Veneta terra, proveniente da brutali forze aliene.  Queste forze nemiche sono prive di moralità, di onore e non rispettose delle leggi di guerra, pronte a travolgere le secolari conquiste reali introdotte dalla gloriosa Veneta Serenissima Repubblica: buon governo, giustizia vera, libertà, meritocrazia, senso civico, moralità, dovere, e non ultimo il benessere, costruito saldamente con il lavoro. Non va dimenticato che la Veneta Serenissima Repubblica era ancora lo Stato della penisola italiana più florido e ai massimi livelli anche nel resto del continente europeo.
Per meglio comprendere questo scritto e bene ricordare quanto riporta il Priuli e il Macchiavelli durante la lunga e durissima guerra di Cambray: “Sono proprio i contadini i più orgogliosi del nome Veneto et mantenevano loro veramente la Repubblica Veneta in piedi” scrive nel 1509 Girolamo Priuli, mentre la Francia, il potentissimo Stato della Chiesa, la Spagna, la Germania, cioè l’impero, in una parola l’Europa tutta è unita contro la Veneta Serenissima Repubblica. “Et cun veritade questi contadini, come di sopra se dice, herano quelli che tenivano il nome Veneto in piedi e in qualche repuctatione et per simile rispecto li inimici herano tanto incrudeliti contra de loro che, quanti ne trovavano tanti ne amazavano et questo hera il mancho suplitio che li potevano dare. Tanem (tuttavia) loro vilani pius ferventi et innanimati et sviserati se disponevano contra li inimici et in favaro dello stato Veneto, ne existimavanno la morte.”  Lo stesso dicasi per il Macchiavelli, il quale descrive con stupore come i contadini Veneti dopo il tracollo militare dovuto alla disfatta di Agnadello anziché passare con i nemici, come avveniva di norma in ogni parte d’Europa, fecero quadrato con il proprio corpo in difesa delle Istituzioni Marciane. Questo è il secolare cordone ombelicale tra popolo e la Veneta Serenissima Repubblica che porta all’insorgenza di Verona del 1797. La soldataglia Napoleonica non esita il giorno 17 aprile a bombardare con l’artiglieria Verona; il popolo, ormai esasperato da questo crescendo di violenza e ruberie napoleoniche, con il sostegno dei volontari provenienti da ogni paese del Veronese e del Veneto tutto, delle forze regolari Venete ma in particolare dei cadetti e Schiavoni del Veneto militar Collegio di Castelvecchio (istituzione all’avanguardia in Europa per i tempi in fatto di educazione scolastica e militare) al grido di “San Marco, San Marco” , queste forze Marchesche, si battono in ogni quartiere di Verona incuranti del ferro e del fuoco nemico. In questa dura battaglia delle “Pasque Veronesi”  non va dimenticato l’importante apporto delle Milizie della Spettabile Reggenza dei 7 Comuni dell’Altopiano di Asiago contro la soldataglia napoleonica. I morti e i feriti, tra cui molte donne, non si contano più tra i Patrioti Veneti, lo stesso dicasi per gli episodi di eroismo, a dare ulteriore manforte ai Veronesi in questa strenua lotta arrivano centinaia di volontari dai monti Lessini: uomini di grande coraggio noti per il loro smisurato amore verso la Veneta Serenissima Repubblica. I Francesi devono indietreggiare, Verona è tornata libera per pochissimo tempo. A provocare il collasso degli insorti sono le notizie di confusione che regnano a Venezia, il governo Veneto non è in grado di decidere e ordinare in maniera chiara e netta all’armata Serenissima di contrastare con ogni mezzo a sua disposizione l’invasore, si ha ancora la tragica illusione che forse il Napoleone se ne andrà dopo aver saccheggiato le ricchezze del territorio. Il popolo di Verona dopo più di una settimana di lotta deve capitolare: subito cominciano processi, torture, esecuzioni e condanne nei confronti di questi coraggiosi difensori della propria terra, l’imposizione del grottesco albero della libertà giacobino e lo smantellamento di ogni simbolo Marciano. Come se non bastasse lo stesso Bonaparte chiede e pretende come “risarcimento” oro e argento, opere d’arte, pegni dei monti di pietà ecc, oltre a smisurate quantità di vettovaglie, scarpe e vestiario per i propri soldati e foraggio per gli animali, che i Veronesi devono soddisfare.

Le Pasque Veronesi sono uno dei momenti più alti della resistenza popolare Veneta che non cesserà per oltre un decennio. Questi fatti hanno lasciato un segno indelebile in ogni Veneto degno di questo nome. Il legame indissolubile con la nostra Veneta Serenissima Repubblica nonostante siano passati due secoli, non è stato ancora reciso benché le forze del male abbiano impiegato ogni mezzo per spezzare questo legame millenario tra il Veneto Popolo e la Veneta Serenissima Repubblica.
Il 9 maggio 1997 figli del nostro Popolo appartenenti al Veneto Serenissimo Governo, con grande sacrificio, hanno risvegliato questo legame. Il lavoro che dopo il 9 maggio il Veneto Serenissimo Governo continua a fare serve a cementare nella coscienza di tutti i Veneti il diritto inalienabile alla libertà della nostra Veneta Serenissima Repubblica.
Il Veneto Serenissimo Governo chiama il Popolo Veneto (ma non solo) all’impegno per affiancarlo nella lotta per l’indipendenza totale della nostra patria e per diffondere, sempre più come un’eco, la storia, la cultura e la tradizione della nostra amata Terra.

Mettiamo da parte tutti i nostri possibili rancori e risentimenti, uniamoci per uno scopo che deve essere superiore ai nostri piccoli interessi: la libertà per noi tutti, questa è la nostra ultima possibilità, se la lasciamo andare saremo condannati dalla storia alla nullità italiana.

Venezia, 17 aprile ’06

Il Presidente
del Veneto Serenissimo Governo
Luigi Massimo Faccia



La Veneta Serenissima Repubblica volle un giardino delle rarità


Come è nato l’orto botanico di Padova

 

La natura dell’orto botanico di Padova è strettamente scientifica spiega la direttrice Elsa Cappelletti. Nel 1545, mezzo millennio fa, il Senato della repubblica veneta deliberò l’istituzione di un hortus simplicium, cioè di un orto per la coltivazione delle piante medicinali, proprio per permettere agli studenti di medicina di analizzarle.
Su un terreno  trapezoidale attualmente ampio poco meno di tre campi da calcio, furono messe a coltura specie portate dai diversi continenti, ma soprattutto dai luoghi con i quali Venezia aveva rapporti commerciali(oggi le piante coltivate sono seimila).

L’orto botanico fu una scelta all’avanguardia della serenissima ; di certo nel cinquecento le piante medicinali erano molto preziose, se poco tempo dopo la creazione del giardino fu alzato un muro di recinzione" per evitare i continui furti notturni, nonostante le gravi pene previste, dalle multe al carcere fino addirittura all’esilio", ricorda Cappelletti.
Ma il fatto di essere " all’origine di tutti gli orti botanici del mondo", motivazione che nel 1997 lo fece inserire nella lista del patrimonio mondiale dell’Unesco, non rende abbastanza bene l’idea di come l’orto botanico di Padova, il più antico a non avere mai cambiato collocazione, abbia esercitato un ruolo fondamentale non solo nello sviluppo della botanica e delle scienze farmaceutiche, ma anche nella vita quotidiana perché introdusse e diffuse in italia numerosissime specie esotiche, non solo ornamentali come il lillà o il gelsomino giallo, ma soprattutto alimentari come  la patata, il girasole e il sesamo, e che oggi sono in mostra lungo il viale che fronteggia le serre ottocentesche. Ormai l’orto è una sorta di monumento "storico" della botanica, forse penalizzato dalla collocazione in pieno centro città, che ne ha condizionato lo sviluppo. Eppure è in continua evoluzione. Così, se ora tra le collezioni in mostra( dalle piante carnivore, alle acquatiche, passando attraverso le orchidacee per arrivare alla flora tipica dei Colli Euganei e alle piante rare del triveneto) trova spazio nell’ arboreto una quercia subfossile che risale al 700 a.C.
A ricordare il ruolo di ponte tra passato e presente resta la palma ultracentenaria di S Pietro, messa a dimora nel 1585: è diventata famosa come palma di Goethe perché il poeta tedesco, dopo averla studiata nel 1786, la citò nel suo "viaggio in italia" e ispirò la sua teoria sulla "metamorfosi delle piante".