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"Sventato attacco kamikaze,petroliera contro Venezia"

…Era già pronto un piano criminale ad opera di terroristi di matrice islamica, in grado di lanciare a tutta velocità una nave petroliera direttamente contro Venezia…

da www.ilgiornale.it
da La Spezia

«Era già pronto un piano criminale ad opera di terroristi di matrice islamica, in grado di lanciare a tutta velocità una nave petroliera direttamente contro Venezia. Sarebbe stata una catastrofe immane, l’abbiamo evitata. Ma i nostri attuali sistemi di sicurezza non sono ancora all’altezza per scongiurare simili attentati»: le parole dell’ammiraglio Ferdinando Lolli, a capo di tutte le Capitanerie di porto italiane, piombano come macigni nella platea di ammiragli, generali e tecnici del settore difesa, fino ad allora un po’ distratti al convegno dedicato alle «Nuove sfide della sicurezza e della tecnologia: come proteggere i confini fisici e virtuali», nella sala del Circolo ufficiali della Marina della Spezia.
Ma Lolli, il «marinaio» che è stato al vertice del reparto piani e operazioni del Comando generale della Guardia Costiera, è appena all’inizio del ragionamento. Che riserva altre sorprese, soprattutto per chi si crogiola nelle certezze delle garanzie acquisite. «Parlare di sicurezza dei confini – riattacca Lolli – vuol dire parlare di sicurezza in mare. Oggi non ci sono più i sommergibili russi da controllare, mentre transitano o sostano al largo delle coste italiane. Oggi da monitorare ci sono i traffici civili, dove però il rischio di emergenze è sempre più elevato». L’attenzione dei presenti, fra i quali il sottosegretario Lorenzo Forcieri, l’ammiraglio Franco Paoli, comandante in capo dell’Alto Tirreno, e il generale Giuseppe Valotto, presidente del Centro alti studi della Difesa, sale al massimo quando si tocca il tasto dei pericoli possibili, se non addirittura probabili per il nostro territorio, provenienti dal mare: «Oggi dobbiamo affrontare rischi nuovi – insiste l’ammiraglio di Capitaneria -. Ci sono minacce a cui dobbiamo fare fronte con nuove tecnologie e con nuovi concetti. Dall’immigrazione al terrorismo, è su questo che si concentra il controllo. Lo dico perché conosco i rischi. Parlo del piano dei terroristi islamici perché sono cose che conosco bene, lo dico perché l’ho visto. Quella petroliera sarebbe arrivata fino a piazza San Marco». Non c’è più bisogno di sollecitare la frequentazione in sala, chi era uscito nei corridoi rientra in fretta. E non si perde l’epilogo: «Sono tanti i vettori a rischio per questa nuova forma di minaccia, pensate al caso Achille Lauro» tuona Lolli, che sembra quasi oltrepassare i confini del convegno per rivolgersi al governo. E aggiunge: «Oggi da un porto partono navi passeggeri con oltre tremila persone. Noi possediamo la tecnologia, unica al mondo, per controllare e monitorare il traffico di ogni mezzo che passa nella nostra zona di competenza, li vediamo come le torri di controllo vedono gli aerei. Ma in mare è un’altra faccenda, è molto più complesso. Dobbiamo sapere in tempo reale chi sono e dove vanno, ad ogni nave corrisponde una scheda, chi c’è a bordo e cosa trasporta».




Risposta ad una provocatoria riflessione apparsa su "L'Arena" di Verona

Il Vicepresidente Andrea Viviani risponde ad una provocatoria e pretestuosa riflessione apparsa sul giornale veronese "L’Arena".

Veneto indipendente. E poi qualche borgo chiederà la secessione

Domanda: è la realtà che ispira la fantasia, o è la fantasia che genera la realtà? Vecchio interrogativo, al quale è arduo dare una risposta univoca. I voli fantastici si basano sempre su eventi conosciuti, e quindi non riescono a decollare più di tanto, e, tra le migliaia di scrittori di fantascienza, nessuno, a cominciare dal grande Asimov in poi, ha mai predetto in un futuro prossimo o lontano la comunicazione globale attraverso internet.

 Ma oggi, mentre Umberto Bossi dal parlamento padano di Vicenza propone una "guerra di liberazione" per le regioni del nord, ecco che è stato preceduto da un giovane trevigiano, Lorenzo Pezzato, che in un suo romanzo di tre anni fa, dal titolo "La linea" autoprodotto e autodistribuito, e che ha quindi il sapore, ma forse non la diffusione, dei samizdat in uso nell’Unione sovietica prima di Gorbaciov, delinea prima dei proclami del senatùr la liberazione e l’indipendenza del Veneto, che si stacca dall’Italia con un incontenibile movimento di massa della popolazione la quale scende massicciamente in piazza protestando contro le tasse.

Inutile, anzi controproducente l’invio dell’esercito, di cui una parte si schiera con la pacifica rivoluzione che occupa le strade, finchè il governo nazionale concede l’indipendenza al Veneto, in nome della libera determinazione dei popoli, e la Repubblica italiana diventa federale.
Ma nasce subito un problema. Nel Veneto indipendente «c’è da sanare una grossa contraddizione: una minoranza che ha appena visti riconosciuti i propri diritti dopo mille peripezie, una volta diventata indipendente e sovrana può chiedere alle minoranze al suo interno di annullarsi?» No, non può, e quindi all’interno del nuovo Stato si attuano processi di liberazione in città, paesi e contrade, che si autogestiscono: basta che il cinquanta per cento più uno degli abitanti di una zona chieda l’autogestione, secondo lo schema oggi in uso per chi chiede l’annessione ad altra regione, e nascono piccole comunità autonome e autosufficienti, divise da linee di confine tracciate con la vernice rossa attraverso strade, piazze, campi e boschi e difese da plotoni di guardie per le quali il più grave reato è "oltrepassare" la linea
 Finchè un gruppo segreto di abitanti di un quartiere di Mestre, chiamati "unionisti" perché aspirano a tornare in Italia, riesce in una notte illune a radunarsi nella piazzetta centrale e a contarsi: sono giusti cinquanta per cento più uno, e quello che fa la maggioranza è Rashid, un immigrato marocchino naturalizzato veneto. Fine della parabola, in senso letterario e in senso geometrico.


 

Giuseppe Brugnoli

All’attenzione del signor Giuseppe Brugnoli

Vorrei rispondere al signor Giuseppe Brugnoli che, nell’articolo apparso nel “Canton de Bepi” sull’Arena del 04 ottobre, deride la lotta di liberazione, in questo caso del Popolo Veneto, prima dicendo che nessuno può predire che cosa succederà nel futuro e dieci secondi dopo afferma che le rivendicazioni di Umberto Bossi ma soprattutto, anche se non lo nomina, del Veneto Serenissimo Governo, sono state predette in un romanzo di qualche anno fa da un giovane Trevigiano, e visto che alla fine della storia ci si ritrovava con il fallimento dell’indipendenza Veneta, dovuta al fatto che dopo aver conquistato la libertà dall’italia ulteriori lotte interne portarono a successive lotte di liberazione di paesi e borghi, il signor Brugnoli vuole far credere che cosi andrà a finire appunto la voglia d’indipendenza del Veneto.

Innanzi tutto vorrei sottolineare che in pochissimi casi, una volta che un Popolo è diventato indipendente dopo una lotta di liberazione da un regime oppressivo, si è a sua volta diviso per ulteriori lotte interne, inoltre se questa fosse una regola che vale per ogni nuova nazione dovremmo essere contrari a qualsiasi movimento che si batte per la liberta della propria Patria.

Inoltre vorrei ricordare, soprattutto ai molti che volutamente questo non lo vogliono accettare, che il Veneto è UN POPOLO che ha più di quattromila anni di storia, una repubblica che è durata per più di mille anni, dove in più di settecento anni non si sono registrate rivolte contro il governo, al contrario della giovanissima italia, dove non esiste un popolo ne tantomeno un’identità nazionale.

Se nel ventesimo secolo tanti Paesi sono potuti ridiventare liberi di autogovernarsi e altri hanno iniziato per la prima volta a camminare da soli, allora è SACROSANTO che il Veneto torni ad essere la Nazione storica d’Europa che era fino a più di duecento anni fa

Come Veneto Serenissimo Governo siamo intenzionati a costruire un Veneto dove ogni singola comunità non deva sentirsi obbligata a far parte della Repubblica e che sia libera di autogovernarsi come preferisce, riprendendo anche i patti di dedizione che secoli fa la Serenissima ha stipulato con le popolazioni che si apprestava a governare e tutelare.

Per completare questa mia risposta al signor Brugnoli allego un nostro comunicato che ripropone il tema dei referendum voluti dai paesi Veneti che vogliono cambiare regione dove spieghiamo il nostro punto di vista.

Verona 16 ottobre 2007

Andrea Viviani
Vicepresidente aggiunto del
Veneto Serenissimo Governo




Israele: "Gaza è un'entità nemica"

editoriali e analisi

Testata:Il Giornale – Libero – Corriere della Sera – Il Foglio
Autore: Fiamma Nirenstein – Angelo Pezzana – Benny Morris – la redazione
Titolo: «Israele sigilla Gaza: E’ un’entità nemica – La mossa di Olmert bastonare la Striscia perché l’iran intenda – «Intollerabile vivere sotto la minaccia dei razzi» – Liberare Gaza»

 

 

Pubblichiamo alcuni editoriali sulla decisione di Israele di definire  Gaza, sotto il controllo di Hamas,  "Entità nemica" e di sospendere gradualmente forniture elttriche e di carburante.

L’editoriale di Fiamma Nirenstein dal GIORNALE (pagina 1 e 13)

Gerusalemme – «Un’entità nemica»: così il governo israeliano ha proclamato ieri la Striscia di Gaza, passata dopo una sanguinosa lotta con Fatah sotto il controllo di Hamas, e sgomberata da Israele nell’agosto del 2005. La scelta dell’esecutivo del premier Ehud Olmert è stata raggiunta al termine di lunghe discussioni sulla base di una proposta del ministro della Difesa, l’ex premier Ehud Barak, e viene spiegata così: «Hamas è un’organizzazione terroristica che ha preso il controllo della Striscia di Gaza, che si è trasformata in territorio ostile… Il movimento estremista ha la responsabilità per questa attività… si è dunque stabilito di adottare le raccomandazioni dei responsabili della sicurezza, incluse la continuazione delle operazioni militari e antiterroristiche».

Ma il governo israeliano promette anche misure completamente nuove, come quelle del restringimento del passaggio di vari beni, la riduzione del rifornimento di benzina e di elettricità. La formulazione resta ambigua, per cui non sembra imminente, per esempio, il taglio della luce elettrica o dei medicinali. Non dice quando il blocco entrerà in vigore e, anzi, promette di tenere conto degli aspetti umanitari. Tuttavia, la svolta c’è stata e Israele è adesso intento a valutarne le implicazioni legali e internazionali; Hamas reagisce irritata, affermando che riterrà Israele responsabile di tutto quello che potrà derivare da questa scelta che, annuncia il partito integralista palestinese, equivale a «una dichiarazione di guerra», alla quale promette di rispondere. Hamas cercherà comunque appoggio internazionale per evitare che Israele proceda nella sua decisione. Anche il presidente palestinese Abu Mazen, avversario di Hamas, condanna la scelta di Olmert. E preoccupato si è detto il segretario generale dell’Onu, il sudcoreano Ban Ki-moon.

«Purtroppo – dice il ministro degli Interni israeliano Avi Dichter – i palestinesi si rifiutano di prendere atto che l’occupazione di Gaza è terminata da due anni e, nonostante ciò, noi restiamo l’obiettivo dei loro missili Kassam e dei loro attentati. Ecco cosa riceviamo in cambio di denaro, luce, benzina e assistenza medica». Il segretario di Stato americano, la signora Condoleezza Rice, giunta ieri a Gerusalemme, ha detto ieri al ministro degli Esteri israeliano, la signora Tzipi Livni, che «anche per noi Hamas è un’entità nemica». E lo ha ribadito nell’incontro che ha avuto poi con Barak.

Da LIBERO a pagina 19, il commento di Angelo Pezzana

Se Hamas è un movimento terrorista, da ieri Gaza è una “ entità ostile”. Questa la decisione presa  nel gabinetto di sicurezza guidato da Olmert e Barak. Una definizione che sottintende un combiamento della politica del governo israeliano, che nei confronti di Gaza non sarà più la stessa. Non è una dichiarazione di guerra, beninteso,  quella che è stata subito definita “ ambiguità vigorosa”, che tradotto vuol dire basta con la carota, adesso arriva il bastone. Il paese se lo aspettava, dopo il ferimento di 69 soldati nella base militare nel Negev, le parole di condanna non bastavano più. Avere ai confini una “entità ostile” presuppone quindi l’uso di tecniche di difesa più approppriate. Ci saranno sanzioni che verranno ancora  chiamate amministrative, quali il taglio della corrente elettrica e dei rifornimenti di benzina, come era già avvenuto giorni fa senza che la cosa avesse destato particolari proteste in campo internazionale, anche se, come ha raccomandato Avi Dichter, capo della sicurezza interna,  cibo e medicinali continueranno ad avere via libera. E’ quindi un cambiamento di rotta, che però va incontro ad interessi non solo israeliani. Condi Rice è arrivata nella regione  per preparare il summit di novembre a Washington, nel quale sembra riporre speranza e fiducia soprattutto la sola America. Olmert, sin dall’inizio dei colloqui, ha tenuto un basso profilo,  ben sapendo che Abu Mazen si regge non certo per forza propria e quindi è un interlocutore che rappresenta i palestinesi solo in parte, mentre quest’ultimo, man mano che passano i giorni, gioca al rialzo per motivi di politica interna. La pace e il compromesso sono una bella cosa, magari ci crede pure, ma di fronte ai suoi deve fare bella figura, altrimenti perde la faccia.  Anche Olmert non sta meglio, pressato com’è dall’opposizione che fa la voce grossa a difesa delle popolazioni del sud colpite senza sosta dai missili Kassam di provenienza Gaza. E poi c’è il fattore Siria, che si scrive Siria ma si legge Iran, che preoccupa tutti quanti, compresi i regimi arabi islamici moderati della regione. Anche se nessuno se ne è assunta chiaramente la responsabilità, è un fatto che Israele ha mandato all’aria i sogni atomici di Assad con qualche lancio ben mirato il 6 settembre, una data che verrà ricordata. Israele non aveva interesse a ventarsene, e la Siria ad ammettere lo smacco. Ma quanto avvenuto è stato un avvertimento all’Iran, che manovra i fili di tutto il terrorismo nella regione. Hamas, che Ahmadinejad nutre amorevolmente, è avvertito. Israele comincia a fare la voce grossa. Non tenerne conto sarebbe per lo meno imprudente. Anche per un gruppo terrorista.

Il commento di Benny Morris dal CORRIERE della SERA (pagina 3)

«Era ora!». È stata questa la reazione della maggior parte degli israeliani alla decisione del governo di imporre sanzioni economiche a Gaza, se altri missili Qassam verranno lanciati dal territorio controllato da Hamas contro Israele. Il governo israeliano ha minacciato in particolare di tagliare l’elettricità agli abitanti della Striscia e sta considerando l’eventualità di bloccare successivamente anche i rifornimenti di combustibile.
Un certo numero di organizzazioni terroristiche — Hamas, la Jihad islamica e le Brigate dei martiri di Al-Aksa, collegate a Fatah — si è reso responsabile del lancio dei missili Qassam contro le colonie ebraiche di confine sin dalla fine del 2001. La cittadina di Sderot è stata colpita da questi lanci per la prima volta nel marzo del 2002. I razzi finora hanno causato scarsi danni e fatto relativamente poche vittime: sino ad oggi si sono contati oltre 1000 missili, che hanno provocato la morte di una dozzina di israeliani e il ferimento di diverse decine. Tuttavia, questa pioggia di razzi ha diffuso il panico a Sderot e molte famiglie hanno preferito abbandonare la zona, quando persino l’intervento dell’esercito israeliano— con lo spiegamento di vari mezzi, tra cui le incursi
oni di corazzati nei territori palestinesi e attacchi missilistici da elicotteri contro le basi di lancio — si è rivelato impotente a fermare gli assalitori.
Nell’estate del 2005, il premier Ariel Sharon decise il ritiro unilaterale dell’esercito israeliano dalla Striscia di Gaza, smantellando tutti gli insediamenti dei coloni, e lasciando il territorio completamente in mano palestinese, con l’eccezione degli attraversamenti di frontiera. La leadership sperava in tal modo di metter fine alle azioni terroristiche contro Israele. Ma è accaduto il contrario e il numero e la varietà di missili che oggi bersagliano Israele non hanno fatto altro che aumentare. La settimana scorsa, un missile ha centrato un campo mobile di addestramento dell’esercito, facendo una cinquantina di feriti tra i soldati.
La decisione presa ieri dal governo è stata la risposta alle pressioni dell’opinione pubblica. Il primo ministro Ehud Olmert e il suo governo sperano che il taglio progressivo delle forniture elettriche — Israele fornisce alla Striscia 120 dei suoi 200 megawatt di consumo (il resto proviene dall’Egitto e da una centrale di proprietà araba nella Striscia) — farà aumentare la pressione popolare su Hamas per mettere fine al lancio dei missili, che rappresenta un gesto intollerabile, sia sul piano simbolico che pratico, per la maggioranza degli israeliani.
Gli islamisti di Hamas, che invocano la distruzione di Israele e la creazione di uno Stato arabo basato sulla sharia in Palestina, hanno preso il controllo della Striscia, sbaragliando brutalmente le forze dell’Autorità palestinese guidate da Fatah, nel giugno scorso (2007). Da allora, Hamas ha consentito alla Jihad islamica e altri gruppi di continuare l’aggressione missilistica contro Israele, mentre Hamas stesso li rifornisce di Qassam quando le scorte si riducono. Si dice che gli ingegneri di Hamas siano al lavoro per realizzare missili dotati di maggior gittata e testate più potenti.
Il taglio dell’elettricità deciso da Israele assicurerà comunque alla Striscia l’operatività di tutti i servizi essenziali — ospedali, uffici amministrativi, ecc.— ma indubbiamente causerà interruzioni periodiche di corrente a gran parte del milione e mezzo di abitanti. Se in seguito si ricorrerà anche al taglio delle forniture di carburanti — gli avvocati del governo in Israele stanno valutando questa possibilità alla luce della legislazione internazionale umanitaria — le conseguenze potrebbero essere ancor più gravi. Ma queste sono le rappresaglie minacciate da Israele, se i terroristi palestinesi continueranno a scagliare missili contro gli insediamenti di confine israeliani.

Dal FOGLIO , l’editoriale a pagina 3:

Dalla striscia di Gaza, sottoposta alla dittatura illegale dei fondamentalisti di Hamas, continuano a piovere missilisi sul territorio israeliano, che la settimana scorsa hanno anche provocato il ferimento di una settantina di soldati. Il ministro della Difesa israeliano, Ehud Barak, sul quale si esercita una forte pressione perché proceda a operazioni militari su vasta scala nella Striscia, ha invece proposto al gabinetto di guerra, che l’ha approvato all’unanimità, un piano di restrizioni dei rifornimenti energetici e di chiusura dei valichi nei confronti di quella che viene definita una “entità ostile”. Barak è il leader laburista che a Camp David offrì a Yasser Arafat una restituzione dei territori occupati che comprendeva persino una parte di Gerusalemme. L’incredibile rifiuto di quella proposta, giudicata esageratamente generosa in Israele, portò alla crisi del processo di pace, all’avvio della rovinosa seconda Intifada, alla cui cessazione Hamas si oppone con le armi e con il colpo di stato di Gaza. La sua decisione attuale va valutata come l’estremo tentativo di evitare una nuova invasione della Striscia, che provocherebbe alla popolazione civile palestinese ostaggio di Hamas danni e lutti assai più consistenti di quelli che patirà per le restrizioni di forniture. Condoleeza Rice, condividendo il giudizio su Hamas come entità ostile, ha dichiarato che l’America non intende “abbandonare i palestinesi innocenti di Gaza”.
Molto dipende dalla capacità dell’opposizione democratica – che a Gaza si confronta, anche con manifestazioni di piazza e preghiere per le strade (proibite da Hamas), con la dittatura estremista – di ottenere qualche successo. La prudenza di Israele, condivisa da Barak e da Ehud Olmert, la sua scelta di non imboccare la via delle operazioni militari di terra, non può reggere a lungo se i suoi villaggi di confine e le sue caserme continueranno a essere bersaglio dei razzi Qassam lanciati dalla Striscia con gli applausi di Hamas e dei suoi sostenitori iraniani.




Siria, un nuovo incubo atomico

Anche Assad può aver avviato un programma nucleare, con l’assistenza della Corea del Nord

 

Edizione 197 del 14-09-2007
www.opinione.it

Siria, un nuovo incubo atomico
Foto dei dissidenti e dichiarazioni di Bolton fanno pensare al peggio

di Paolo Della Sala

“Bombardare l’Iran o lasciare la bomba all’Iran?”, questo è il dubbio che Nikolas Sarkozy cerca di far filtrare a Bruxelles per convincere gli eurocrati a utilizzare le sanzioni economiche. Di questo passo, è ovvio che la situazione peggiori e i mali si diffondano. Le indiscrezioni di questi giorni sono pesanti. Ne hanno scritto il New York Times, Cnn, Washington Post e la stampa israeliana e libanese: anche la Siria potrebbe avere attivato dei laboratori per l’arricchimento dell’uranio. Il blitz aereo israeliano all’interno del territorio siriano ha colto nel segno. Lo dimostra il fatto che lo sconfinamento della scorsa settimana è scivolato sotto traccia. Le notizie filtrano adesso. L’ambasciatore all’Onu John Bolton ha ricordato che la Siria ha un programma di collaborazione con la Corea del Nord, così come lo stesso Iran. Fino a ieri il programma sembrava limitato alla fornitura di missili a medio raggio, ma le fotografie scattate dall’aviazione israeliana fanno pensare a dei laboratori, più che a rampe di missili. Nonostante una smentita da parte dell’ambasciatore siriano Bashar Jaafari al Palazzo di Vetro (“Sono bla bla privi di ogni fondamento”), Damasco mantiene un silenzio imbarazzato. Bolton ha ricordato che la dittatura di Kim Jong-Il aveva ricevuto un durissimo “warning” dagli Usa, sul possibile trasferimento all’estero dei propri impianti.

Mentre gli analisti eurabici rassicurano il mondo coi soliti discorsi, il Partito riformista siriano in esilio ha denunciato la presenza di laboratori di ricerca a Deir al-Hajjar già nel 2005. Il Prs ha anche pubblicato sul suo sito i nomi degli scienziati che starebbero lavorando al piano nucleare. Il regime degli Assad finora ha alternato prudenza e ferocia, ma è sempre stato sostenuto dal silenzio dei suoi amici internazionali, che hanno tacitato il massacro della città di Hama, dove 20.000 cittadini inermi vennero fatti a pezzi dal fuoco dei mortai. Era il 1982. Oggi la Siria è al centro di un traffico crescente di armi tra Iran e Libano. Gli aerei e i soldati penetrati in territorio siriano hanno documentato anche questi traffici. Gerusalemme e Damasco non hanno confermato le indiscrezioni filtrate sull’incursione di giovedì scorso. Stranamente, mentre l’ambasciatore Jaafari parlava di voci prive di fondamento, l’Onu continua a tacere: il breve commento del Segretario Generale all’indomani della violazione del confine siriano è stato poco più di un telegramma.

Il ministro degli Esteri francese è arrivato ieri a Gerusalemme, prima tappa di un viaggio in Medio Oriente. Le sue dichiarazioni sono disarmanti: “Tutti sanno che arrivano armi dalla frontiera siriana. La differenza è che ora sono al di sopra del fiume Litani e non più al di sotto. Ma sono sempre puntate contro Israele”. Nella scorsa settimana una delegazione statunitense ha incontrato una rappresentanza militare nordcoreana a Ginevra. In questi giorni esperti Usa, russi e cinesi stanno visionando l’impianto nucleare di Yongbyon, per studiare come smantellarlo. Vi sarebbe materiale sufficiente alla realizzazione di dieci atomiche. Sarebbe una beffa ritrovarsi qualcosa di simile in Siria. Riguardo allo sconfinamento israeliano, il raid serviva a testare i sistemi antiaerei siriani in preparazione di un attacco contro l’Iran, qualora la situazione arrivasse a un punto di non ritorno? Lo sapremo nel prossimo futuro.




Il premier italiano incontra Omar al Bashir. Disappunto delle associazioni umanitarie

La politica estera italiana è ancora una volta al centro della bufera. Stavolta a finire sul banco degli imputati è il presidente del Consiglio Romano Prodi (e anche quello della repubblica Giorgio Napolitano) per l’accoglienza con tutti gli onori riservata al presidente golpista della repubblica islamica del Sudan, Omar Hassan el Bashir, da ieri notte in visita ufficiale nel nostro paese.

 

www.opinione.it

Edizione 198 del 15-09-2007

Il premier italiano incontra Omar al Bashir. Disappunto delle associazioni umanitarie

Il dittatore sanguinario e il Professore
Anche 25 europarlamentari protestano con Prodi

di Stefano Magni

La politica estera italiana è ancora una volta al centro della bufera. Stavolta a finire sul banco degli imputati è il presidente del Consiglio Romano Prodi (e anche quello della repubblica Giorgio Napolitano) per l’accoglienza con tutti gli onori riservata al presidente golpista della repubblica islamica del Sudan, Omar Hassan el Bashir, da ieri notte in visita ufficiale nel nostro paese.
Ad aprire le ostilità contro la scelta italiana di ricevere un dittatore che molti vorrebbero davanti al tribunale dell’Aja per i crimini contro l’umanità, come un qualsiasi Milosevic, sono stati 25 deputati inglesi e francesi al parlamento europeo che hanno scritto una pesante lettera aperta allo stesso Prodi.

E ieri la polemica era stata ripresa anche da Amnesty international, per una volta non strabica nelle proprie denunce contro chi viola i diritti umani. Oggi poi l’International Herald Tribune dava molto risalto a questa polemica in un articolo intitolato "La visita in Italia del leader del Sudan fa crescere la preoccupazione internazionale". Durante l’incontro mattutino con Prodi, al Bashir dichiarava di essere pronto al cessate il fuoco alla vigilia della missione internazionale nel Darfour dove dovrebbero essere dislocate alcune migliaia di soldati Onu. Ma il problema è che al Bashir, secondo le statistiche di Amnesty international del 2006, dopo la sigla dell’inutile precedente accordo di pace, parla con la doppiezza tipica di tutti i raiss arabi. E se è vero che anche Papa Benedetto XVI lo riceverà a Castelgandolfo, la cosa non può essere spesa dal dittatore come "riconoscimento" ma al massimo come "mediazione" disperata per evitare altri lutti ai cristiani del Sudan.

Sia come sia, l’ultimo rapporto di Amnesty parla chiaro. Basta leggere quanto segue: "..il governo del Sudan ha recentemente lanciato la più imponente offensiva militare da oltre un anno nel Darfour settentrionale, nella regione stanno avendo luogo bombardamenti su vasta scala, questa offensiva è caratterizzata da gravi violazioni del diritto umanitario, tra cui attacchi indiscriminati e sproporzionati e attacchi diretti contro i civili." Tutto ciò veniva scritto nel dicembre del 2006 , a cinque mesi dalla sigla di un accordo di pace che non è mai arrivata. Spesso, come nel caso dell’incursione su al-Hassan del 29 luglio 2006, sono stati presi di mira ospedali e scuole. Nel bombardamento di Kusa Kuma, a nordest di al-Fasher, avvenuto il 27 settembre dello stesso anno, sono state uccise tre donne: Halima ‘Issa Abaker e due sorelle, Maryam e Hawa Ishaq Omar.

Il rapporto di Amnesty International denuncia come in ampie zone del Darfur occidentale, i Janjaweed (le milizie a cavallo filo-governative) abbiano ormai assunto il quasi completo controllo delle terre e le stiano occupando dopo averle rese inabitabili a seguito delle massicce offensive del 2003 e del 2004. Gli sfollati vivono come prigionieri all’interno di campi, mentre all’esterno di questi le forze di sicurezza e i Janjawid continuano a rendersi responsabili di uccisioni, sequestri, espulsioni e stupri. Come se non bastasse il conflitto si sta allargando al Ciad orientale. Gli attacchi dei Janjaweed contro la popolazione del Ciad, attraverso la frontiera del Darfour, iniziati alla fine del 2005, sono ancora in corso in questi giorni. I bloggers che fanno riferimento alle ong che si occupano di diritti umani, come secondoprotocollo.org, hanno accolto la notizia della visita di stato di Al Bashir con sarcasmo: "è strano che ad attenderlo ci sia la banda presidenziale e non un cellulare con le forze dell’ordine".

Amnesty parla di coincidenza curiosa di questa visita di Stato in Italia, unico paese a essersi sinora sbilanciato così tanto con il Sudan, proprio alla vigilia della conferenza di Tripoli di ottobre dove per l’ennesima volta verrà promesso un cessate il fuoco che forse non ci sarà. Tutta la questione infatti si gioca sull’estrema ambiguità del contendere: il governo sudanese sostiene falsamente di non potere fare niente contro i Janjaweed, i diavoli a cavallo, e di non manovrarli. Di fatto però non li ha mai contrastati e sinora si è sempre opposto a forze straniere nel paese per operazioni di ordine pubblico e di peace-keeping.
Si vedrà come andrà a finire, di certo però l’Europa non mostra di credere a questa azzardata mediazione all’italiana, se è vero come è vero che ieri Prodi ha dovuto passare la maggior parte del suo tempo a rispondere a quei 25 eurodeputati francesi e inglesi (tra cui Glennys Kinnock) che gli chiedevano conto di questa, a loro avviso, "improvvida iniziativa".

E ha usato l’espressione di "occasione utile", slogan coniato per l’occasione. In Europa tutti però si chiedono in cosa consista questa presunta utilità. E se non ci sia invece il rischio di legittimare un governo andato al potere nel 1989 con un colpo di stato islamista. Vallo a spiegare che l’Italia tratta un po’ con tutti i boia del mondo, da Ahmadinejad, ad Assad di Siria, passando per i leader di Hamas e adesso anche per il presidente genocida del Sudan.




E' tutta un’altra storia-Il primo esodo dalmata

L’opinione delle libertà

Uno dei miti più persistenti del nazionalismo è quello dell’italianità della Dalmazia.
La Dalmazia aveva una composizione etnica molto diversificata: c’era gente che parlava italiano (in realtà veneto) , ma la maggioranza era rappresentata da croati e da serbi, con consistenti presenze tedesche, ungheresi, ebree, rumene e albanesi.
Tutti erano stati per secoli felici sudditi veneziani: qui venivano reclutati i fedelissimi Schiavoni (da Schiavonia, Sciavonia, terra degli Sciavi-Slavi) . La lingua franca e colta era il veneziano e tutti lo parlavano e capivano, assieme al proprio idioma.

Uno dei miti più persistenti del nazionalismo è quello dell’italianità della Dalmazia. Per molto tempo si è detto che la Dalmazia fosse abitata da una consistente minoranza italiana, che in ogni caso fosse egemone, rappresentasse la vera cultura e identità locale. L’idea insomma era che – indipendentemente dall’origine etnica – tutti si sentissero italiani o aspirassero ad esserlo. Il convincimento si basava su due assunti. Il primo aveva a che fare con la lunga appartenenza di larga parte della Dalmazia alla Serenissima e con l’identificazione semplicistica di Venezia con l’Italia. Il secondo che gli slavi appartenessero a una cultura inferiore, subordinata e che la loro evoluzione sociale e culturale non potesse che portarli alla italianizzazione. Entrambe le convinzioni si basavano su quanto era avvenuto sotto la Repubblica, quando gli indigeni effettivamente diventavano nel tempo “veneziani”, assimilando la cultura, gli usi e la lingua di Venezia. Il mito era stato creato dai patrioti dalmati italiani o italianizzati che hanno partecipato alle vicende risorgimentali, nelle quali la Dalmazia compare spesso in progetti di azioni militari.

Il dogma dell’italianità è rafforzato dall’irredentismo degli inizi del 900 e soprattutto dalla sua componente dannunziana che pretendeva la “liberazione” e l’annessione dell’intera regione fino allo spartiacque delle Dinariche. A questi principi era ispirato il Patto di Londra del 1915, con il quale l’Italia era entrata in guerra tradendo i propri alleati. La Dalmazia, ma anche l’Istria e il Tirolo meridionale sono perciò stati i 30 denari del tradimento italiano e non potevano portare niente di buono. In realtà la situazione locale era molto diversa. La Dalmazia aveva una composizione etnica molto diversificata: c’era gente che parlava italiano (in realtà veneto) , ma la maggioranza era rappresentata da croati e da serbi, con consistenti presenze tedesche, ungheresi, ebree, rumene e albanesi. Tutti erano stati per secoli felici sudditi veneziani: qui venivano reclutati i fedelissimi Schiavoni (da Schiavonia, Sciavonia, terra degli Sciavi-Slavi) . La lingua franca e colta era il veneziano e tutti lo parlavano e capivano, assieme al proprio idioma. Nell’area si parlava anche il dalmatico, una lingua neolatina, simile al friulano, che si è estinta alla fine del XIX secolo. La sola parziale eccezione era rappresentata dalla Repubblica di Ragusa che aveva conservato una sua lunga indipendenza, pur subendo la forte influenza culturale della Serenissima.
La condizione di pacifica convivenza era continuata sotto l’Austria (che si era annessa col Congresso di Vienna sia la Dalmazia veneziana che Ragusa) , che ne ha rispettato tutte le culture. Il primo censimento che tenesse conto delle etnie (in realtà delle lingue) è quello del 1910, secondo il quale in Dalmazia c’erano 610. 000 Slavi e 17. 900 Italiani (11. 600 a Zara, 2. 357 a Spalato, 444 a Curzola, 265 a Brazza, 586 a Lesina, 149 ad Arbe, 968 a Sebenico, 526 a Ragusa, 538 a Cattaro e altri piccoli gruppi sparsi) . Fiume era censita a parte e qui i risultati davano 25. 600 Italiani, 26. 600 Slavi e 6. 000 Ungheresi. Si è dibattuto sulla validità dei dati costruiti sulla “lingua d’uso” e non sulla “lingua di famiglia”: Ghiglianovich e i più accesi nazionalisti hanno sostenuto che gli Italiani fossero addirittura 100. 000, il governo italiano ha ipotizzato la cifra di 50. 000. Cambia poco. Resta il fatto che fossero comunque una piccola minoranza e che ci fosse molta commistione interetnica. Si era creata una cultura dotata di caratteri distintivi propri, originari e straordinari. Tutto è stato guastato dai nazionalismi di due Stati inventati che avevano bisogno di creare un identitarismo per giustificare la propria esistenza. Gli italiani quello italiano, capziosamente indicato come erede e continuatore di Venezia.
Gli jugoslavi per giustificare la creazione del regno SHS (serbo, croato e sloveno) che altro non era che il frutto dell’espansionismo imperialista serbo. Dopo la conclusione della grande guerra, l’Italia ha preteso il rispetto del Patto di Londra ma anche l’annessione di Fiume. Si trattava della solita ingordigia nazionalista giustificata dall’enorme costo umano della guerra appena conclusa e dal fatto che croati e sloveni avessero combattuto fino all’ultimo per l’Austria e che dovessero perciò considerarsi degli sconfitti. Queste pretese cozzavano con le preoccupazioni per una eccessiva espansione italiana da parte degli anglo-francesi, memori del modo poco limpido con cui l’Italia era entrata in guerra e come fosse sopravvissuta essenzialmente grazie all’aiuto economico ma anche militare alleato e che non meritasse perciò troppe concessioni territoriali. Si scontravano anche con le pretese e con l’abile politica diplomatica dei serbo-jugoslavi e con i principi di nazionalità sostenuti dal presidente americano Wilson. L’Italia si era già assicurata il Sud Tirolo e gran parte dell’Istria ed ora voleva annettersi un’area dove gli italiani erano solo il 2, 9% della popolazione, e concentrati in poche città della costa. Alla fine di un lungo tira e molla in cui si era anche inserita l’avventura dannunziana a Fiume e un tentativo di colpo di mano su Traù, si è arrivati agli accordi di Rapallo del 1920 con i quali l’Italia ha ottenuto la città di Zara e le isole di Lagosta e Pelagosa.

L’esercito italiano sgombera completamente i territori destinati alla Jugoslavia solo nel 1922, dopo quasi 4 anni di polemiche e di manifestazioni di arroganza da parte di alcuni irresponsabili esponenti locali del nazionalismo italiano, di contrapposizioni nazionalistiche, di cattiva gestione del periodo di occupazione militare, che avevano ormai devastato il clima di civile convivenza fra le comunità e messo in difficoltà gli italiani rimasti in territorio jugoslavo. Il governo italiano chiede per loro garanzie che Belgrado si dichiara disposta a concedere a condizione che siano applicate anche agli slavi in territorio italiano. Il ministro italiano De Martino rifiuta l’accordo dicendo all’intermediario francese Berthelot che “all’Italia, in quanto grande potenza, non era richiesta l’accettazione delle garanzie per le minoranze”. È lo stesso atteggiamento arrogante tenuto in Sud Tirolo, che ha portato a una lunga scia di tragedie. Il risultato immediato di tale politica è stato il primo esodo di dalmati, molti dei quali si sono trasferiti in Italia, nelle nuove provincie istriane o nell’enclave di Zara. Serve r
icordare che anche molti slavi si fingono italiani o italianizzati per usufruire dei vantaggi dell’esodo e per fuggire da una condizione economica senza prospettive.

Il governo italiano ha fornito la cifra di 2. 585 esuli (3. 381 secondo i rappresentanti locali) che, sommati ai 6. 802 italiani residenti in Jugoslavia censiti nel 1927 portano a un totale di circa 10. 000 persone che – anche comprendendo gli abitanti di Zara– dà una cifra somigliante a quella del tanto criticato censimento austriaco del 1910 e comunque molto lontana dai numeri entusiastici forniti dai nazionalisti. Se gli esuli sono relativamente pochi in numero assoluto, essi rappresentano però circa un terzo della componente italiana. Gran parte dei rimasti lascerà la Dalmazia dopo la seconda guerra mondiale. Come detto, la Dalmazia costituiva uno straordinario scenario di tranquilla e operosa multiculturalità, garantito dalla grande civiltà di Venezia e di Vienna. La soluzione più intelligente sarebbe stata la costituzione di uno Stato dalmata autonomo, una sorta di Repubblica di Ragusa ricostituita e allargata. Nel 1919 un progetto del genere era stato ipotizzato sotto la forma di una Lega delle città marine, ma i tempi non erano maturi, i due nazionalismi contrapposti erano troppo aggressivi e ottusi, e Wilson decisamente non era austriaco. Oggi quel mondo è largamente scomparso: se ne sono andati quasi tutti gli “italiani”, le comunità minori sono state disperse o assimilate, i serbi sono stati cacciati alla fine del secolo scorso, e la regione è massicciamente croata. Una civiltà straordinaria è andata perduta a causa di una sommatoria di imbecillità jugoslave e italiane. Almeno la Jugoslavia è sparita.




Ecco cosa succede nelle mosche italiane

Così i fondamentalisti invitano a uccidere gli infedeli

Testata: La Stampa
Data: 30 marzo 2007
Pagina: 7
Autore: Maurizio Tropeano – Massimo Numa – la redazione
Titolo: «L’imam: gli infedeli vanno uccisi – L’ira della comunità: spiarci è sacrilegio – «Una nuova moschea? Ecco perché sono cauto»

Dalla STAMPA del 30 marzo 2007:

La moschea è in un cortile di via Cottolengo, a Torino, la stessa dove predicava l’imam Bouchta espulso dall’Italia per sospetta attività terroristica, è nel cuore di Porta Palazzo, dietro il grande mercato dell’ortofrutta. L’altra è in via Saluzzo, quartiere San Salvario. Due pezzi di città dove i cittadini extracomunitari si sono insediati in modo massiccio nel corso degli anni. Sono stranieri. Arrivano da Marocco, Tunisia, Egitto. Tutti di religione musulmana. In questi luoghi di culto salafiti, almeno secondo le riprese di una telecamera nascosta di una troupe di Annozero, si fa propaganda ad Al Qaeda e si chiamano alle armi i fedeli: «Nessun compromesso con gli atei. Si uccidono e basta».
Il filmato
Immagini che durano pochi minuti ma che a partire da oggi potrebbero essere acquisite dalla squadra antiterrorismo di Torino. Il suo capo, Giuseppe Petronzi, afferma di aver «guardato con molta attenzione il servizio televisivo. Nessuno ci aveva informato delle riprese e adesso valuteremo in che nodo acquisire la documentazione». Petronzi, però, non risponde a chi gli chiede se ci siano indagini in corso sui terroristi islamici.
L’inchiesta giornalistica di Maria Grazia Mazzola partita per documentare la violenza sulle donne perpetuate in nome del Corano si è servita di una telecamera nascosta, grande come uno spillo, per fare le riprese all’interno dei luoghi di culto. Mazzola racconta l’«ostilità e la diffidenza» riscontrata in questo viaggio di due settimane in alcuni dei luoghi frequentati da una parte dei fedeli musulmani torinesi. Poi l’inchiesta prende una piega diversa e arriva a documentare come in quelle due moschee si faccia propaganda in favore del terrorismo islamico.
L’iman Kuhaila invita i credenti a non integrarsi con gli infedeli perché l’Islam e l’unica via di salvezza. Poi la microcamera riprende le fotocopie di fogli di propaganda del gruppo terroristico. Per la giornalista si tratta del «giornale di Al Qaeda» e lì si può leggere l’esaltazione della Jihad si parla di Al Zarkawi, il capo della cellula irachena dell’organizzazione terroristica ucciso dagli americani, e lo si porta come modello per il martirio. Tra quelle pagine ci sono anche la descrizione di strategie militari. La stessa propaganda di esaltazione della guerra santa contro gli infedeli, cioè ebrei e cristiani, si ripete nella moschea di via Saluzzo. Qui le informazioni si possono leggere su una bacheca dove sono stati affissi i fogli del giornale. Fin qui il video. Che faranno gli inquirenti? Petronzi non si sbilancia. Nel corso degli anni la Digos di Torino ha cercato di contrastare il terrorismo di matrice islamica. La prima inchiesta è del 1997 contro la Gia algerina. Poi nell’aprile del 2001 partono le indagini che portano ad accertare l’esistenza di una campagna di arruolamento partita dalle moschee del Nord-Ovest per i capi dell’Afghanistan. A Guantanamo sono detenuti quattro combattenti catturati in battaglia dagli americani. Poi nel 2003 l’inchiesta che portò all’espulsione di cinque marocchini accusati di star preparando attentati in Italia. L’anno dopo toccherà all’imam della moschea di via Cottolengo. Sindaco Chiamparino in due moschee di Torino si lanciano proclami a favore di Al Qaeda. E’ preoccupato?
«Spero che i filmati non mettano in pericolo eventuali inchieste di magistrati e polizia. Che ci possano essere pericoli lo testimonia il fatto che alcuni anni fa venne espulso l’imam Boutcha. Io non sono stato tra quelli che si sono stracciate le vesti per quel fatto».
Il Comune non può far niente?
«In Comune non sono arrivate mai segnalazioni su rischi di terrorismo islamico. Certo non abbassiamo la guardia e per questo sono felice di aver risposto con molta, moltissima cautela a chi ogni tanto si è fatto vivo per chiedere la costruzione di una grande moschea a Torino».
Contrario alla costruzione?
«Sono cauto, molto cauto. E’ necessario capire chi sono i finanziatori e da dove arrivano i soldi. Stiamo lavorando per integrare nella vita sociale della città la stragrande maggioranza degli stranieri che lavora e rispetta le leggi».
Siamo scossi. No, non è possibile». Via Cottolengo 5. Nel cuore di Porta Palazzo, il quartiere multietnico di Torino, dove gli islamici sono migliaia, il foglio con il lancio d’agenzia che racconta lo scoop di Annozero, passa di mano in mano. «Come? una videocamera segreta nella moschea? E’ sacrilegio, è un fatto gravissimo. Non ci crediamo», dicono. Invece è successo.
Quello che i fedeli chiamano l’Imam dovrebbe essere un marocchino, conosciuto come Kuhaila; appare all’improvviso da dietro la porta di vetro e acciaio. Fa segno di no con una mano, «non ho niente da dire, andare via». Barba tradizionale, alto ed esile, deciso a non rispondere, a tagliare ogni contatto con il mondo esterno. I suoi sermoni sono famosi, da mesi, da quando il suo predecessore, Bouriqui Bouchta, è stato espulso. E’ un uomo di grande carisma, vive in un alloggio dello stesso fabbricato, dove una volta abitava una famiglia tunisina. Esce poco, raccontano i vicini, è «un religioso che passa il tempo a pregare e a studiare», uno dei leader dei Salafiti.
Già nell’ingresso veniamo allontanati con decisione. «Via, per piacere. Questa è l’ennesima offesa contro di noi, contro i musulmani», dice un ragazzo. Ma è vero o no che durante la preghiera, si inneggia alla Jihad, alla guerra santa contro l’Occidente. Ma chi è il vostro Imam? Silenzio. Alla fine, una risposta, ironica: «E’ Bouriqi Bouchta», dice uno dei pochi che non indossa la veste tradizionale. Ridono tutti, ora. Bouchta è stato espulso nel settembre 2005 e rimpatriato in Marocco dal ministero degli Interni.
Storia di anni fa. Quando Bouchta, proprietario di alcune macelleria, faceva sfilare i ragazzini di Porta Palazzo vestiti da miliziani di Hamas, con il cappuccio e la kefiah, urlando slogan contro Israele e gli Usa.
La predicazione, in quella moschea di via Cottolengo, destava molti sospetti. La Digos aveva scoperto che venivano effettuate raccolte di fondi per le vedove dei kamikaze che dovevano ancora farsi saltare, accadde poi nel maggio 2003, a Casablanca. E qui si celebravano le figure leggendarie dei guerriglieri ceceni, come quel Khattab, la cui foto – da morto – era la cover di un manifesto di propaganda per raccogliere denari e volontari per la causa.
Storia di oggi. E’ vero che le guide spirituali suggeriscono, anzi impongono, di non integrarsi «con gli infed
eli», di respingere in blocco lo stile di vita europeo, e soprattutto, che viene offerto materiale propogandistico della Rete di bin Laden, che si incita all’odio contro gli americani, che vengono raccolti fondi per le organizzazioni terroristiche che poi investono il denaro in attentati anche contro l’Esercito Italiano? E’ vero che viene ricordato con la preghiera Al Zarqawi, il capo della guerriglia in Iraq recentemente ucciso dalle forze della coalizione? Ti aspetti un coro di no indignati.
Ma Abu H., che si definisce moderato e che frequenta la moschea di via Saluzzo, nell’altro quartiere ad alta densità musulmana, cioè San Salvario, quasi raggela: «E’ vero, purtroppo. Da tempo avevo segnalato che alcuni Imam provenienti dall’Egitto predicavano l’intolleranza, il fanatismo e il culto della Jihad. Non posso dire né sì, né no, in merito a un’azione diretta, di proselitismo a favore di Al Qaeda. In realtà, più che gli episodi singoli, quel che conta è come è cambiato, in peggio, il clima. Quanto accade in Iraq e Afghanistan, in Palestina, ha profonde ripercussioni anche qui. C’è un senso di delusione, per la democrazia».
Aggiunge: «Molti di noi, mentre scorrono in tv le immagini di stragi, bombardamenti, esecuzioni, si sentono sempre più stranieri, isolati dalla società dove vivono e lavorano, dove si sono integrati, almeno in apparenza, con tanta fatica. Io sono un uomo di pace, vi prego, non lasciateci soli, non allargate il solco che ci divide».
E se nella moschea di Bouchta c’è rabbia e disprezzo («La tv dice solo bugie», concludono), in via Saluzzo si respira un clima di tristezza, di sorda irritazione. «Vogliamo vedere Annozero, poi il nostro Imam farà le sue considerazioni. Se questo è un modo di avvicinare le comunità, se questa è la strada del dialogo, allora ci siamo sbagliati tutti. Si torna indietro, questa è la verità».

La reazione dei fondamentalisti, che come di consueto cercano di presentarsi come vittime:

Siamo scossi. No, non è possibile». Via Cottolengo 5. Nel cuore di Porta Palazzo, il quartiere multietnico di Torino, dove gli islamici sono migliaia, il foglio con il lancio d’agenzia che racconta lo scoop di Annozero, passa di mano in mano. «Come? una videocamera segreta nella moschea? E’ sacrilegio, è un fatto gravissimo. Non ci crediamo », dicono. Invece è successo. Quello che i fedeli chiamano l’Imam dovrebbe essere un marocchino, conosciuto come Kuhaila; appare all’improvviso da dietro la porta di vetro e acciaio. Fa segno di no con una mano, «non ho niente da dire, andare via». Barba tradizionale, alto ed esile, deciso a non rispondere, a tagliare ogni contatto con il mondo esterno. I suoi sermoni sono famosi, da mesi, da quando il suo predecessore, Bouriqui Bouchta, è stato espulso. E’ un uomo di grande carisma, vive in un alloggio dello stesso fabbricato, dove una volta abitava una famiglia tunisina. Esce poco, raccontano i vicini, è «un religioso che passa il tempo a pregare e a studiare », uno dei leader dei Salafiti. Già nell’ingresso veniamo allontanati con decisione. «Via, per piacere. Questa è l’ennesima offesa contro di noi, contro i musulmani», dice un ragazzo. Ma è vero o no che durante la preghiera, si inneggia alla Jihad, alla guerra santa contro l’Occidente. Ma chi è il vostro Imam? Silenzio. Alla fine, una risposta, ironica: «E’ Bouriqi Bouchta», dice uno dei pochi che non indossa la veste tradizionale. Ridono tutti, ora. Bouchta è stato espulso nel settembre 2005 e rimpatriato in Marocco dal ministero degli Interni. Storia di anni fa. Quando Bouchta, proprietario di alcune macelleria, faceva sfilare i ragazzini di Porta Palazzo vestiti da miliziani di Hamas, con il cappuccio e la kefiah, urlando slogan contro Israele e gli Usa. La predicazione, in quella moschea di via Cottolengo, destava molti sospetti. La Digos aveva scoperto che venivano effettuate raccolte di fondi per le vedove dei kamikaze che dovevano ancora farsi saltare, accadde poi nel maggio 2003, a Casablanca. E qui si celebravano le figure leggendarie dei guerriglieri ceceni, come quel Khattab, la cui foto – da morto – era la cover di un manifesto di propaganda per raccogliere denari e volontari per la causa. Storia di oggi. E’ vero che le guide spirituali suggeriscono, anzi impongono, di non integrarsi «con gli infedeli», di respingere in blocco lo stile di vita europeo, e soprattutto, che viene offerto materiale propogandistico della Rete di bin Laden, che si incita all’odio contro gli americani, che vengono raccolti fondi per le organizzazioni terroristiche che poi investono il denaro in attentati anche contro l’Esercito Italiano? E’ vero che viene ricordato con la preghiera Al Zarqawi, il capo della guerriglia in Iraq recentemente ucciso dalle forze della coalizione? Ti aspetti un coro di no indignati. Ma Abu H., che si definisce moderato e che frequenta la moschea di via Saluzzo, nell’altro quartiere ad alta densità musulmana, cioè San Salvario, quasi raggela: «E’ vero, purtroppo. Da tempo avevo segnalato che alcuni Imam provenienti dall’Egitto predicavano l’intolleranza, il fanatismo e il culto della Jihad. Non posso dire né sì, né no, in merito a un’azione diretta, di proselitismo a favore di Al Qaeda. In realtà, più che gli episodi singoli, quel che conta è come è cambiato, in peggio, il clima. Quanto accade in Iraq e Afghanistan, in Palestina, ha profonde ripercussioni anche qui. C’è un senso di delusione, per la democrazia ». Aggiunge: «Molti di noi, mentre scorrono in tv le immagini di stragi, bombardamenti, esecuzioni, si sentono sempre più stranieri, isolati dalla società dove vivono e lavorano, dove si sono integrati, almeno in apparenza, con tanta fatica. Io sono un uomo di pace, vi prego, non lasciateci soli, non allargate il solco che ci divide». E se nella moschea di Bouchta c’è rabbia e disprezzo («La tv dice solo bugie», concludono), in via Saluzzo si respira un clima di tristezza, di sorda irritazione. «Vogliamo vedere Annozero, poi il nostro Imam farà le sue considerazioni. Se questo è un modo di avvicinare le comunità, se questa è la strada del dialogo, allora ci siamo sbagliati tutti. Si torna indietro, questa è la verità».

L’intervista e Sergio Chiamparino, che esprime una saggia cautela sulla costruzione di una nuova moschea. Troppo spesso in Italia sono state finanziate le moschee dei Fratelli musulmani, organizzazione fondamentalista che diffonde una cultura di odio.
Le prediche di chi esorta uccidere gli infedeli costituiscono, come ha spiegato Magdi Allam , un pericolo molto concreto: sono il primo anello della catena di reclutamento del terrorismo.

Sindaco Chiamparino in due moschee di Torino si lanciano proclami a favore di Al Qaeda. E’ preoccupato? «Spero che i filmati non mettano in pericolo eventuali inchieste di magistrati e polizia. Che ci possano essere pericoli lo testimonia il fatto che alcuni anni fa venne espulso l’imam Boutcha. Io non sono stato tra quelli che si sono stracciate le vesti per quel fatto». Il Comune non può far niente? «In Comune non sono arrivate mai segnalazioni su rischi di terrorismo islamico. Certo non abbassiamo la guardia e per questo sono felice di aver risposto con molta, moltissima cautela a chi ogni tanto si è fatto vivo per chiedere la costruzione di una grande moschea a Torino». Contrario alla costruzione? «Sono caut
o, molto cauto. E’ necessario capire chi sono i finanziatori e da dove arrivano i soldi. Stiamo lavorando per integrare nella vita sociale della città la stragrande maggioranza degli stranieri che lavora e rispetta le leggi».




«Io, Serenissimo e mai pentito»

Da "L’Arena" del 26 marzo 2007

A dieci anni dal clamoroso blitz, parla uno dei responsabili che fu poi coinvolto nell’assalto in piazza San Marco a Venezia
«Io, Serenissimo e mai pentito»
Andrea Viviani: «Le interferenze al Tg1? Allora servivano, ma non lo rifarei»
Le incursioni audio al telegiornale per ricordare la fine di Venezia

   
 
 
di Giampaolo Chavan

«Le interferenze sul telegiornale? Non le rifarei ma non sono pentito. Nel marzo del 1997, dovevano essere fatte per celebrare il 200. anniversario della fine della Repubblica Veneta». Andrea Viviani, 36 anni, non molla le sue posizioni politiche-autonomiste a dieci anni di distanza da quelle incursioni televisive, culminate poi il 9 maggio del 1997, con l’assalto in piazza San Marco a Venezia. E anche se è cambiato il metodo, ora non più clandestino e fuorilegge, gli ideali restano. E resta ancora più in vita che mai il Veneto Serenissimo governo di cui l’operaio di Colognola ai Colli fa parte da più di 10 anni anche se ora in qualità di vice presidente e cancelliere. «Ma adesso svolgiamo le nostre attività alla luce del sole: inviamo spesso anche i comunicati stampa ai giornali» afferma Andrea Viviani. Smessi i panni degli indipendentisti clandestini, Viviani e soci hanno intrapreso una nuova strada politica, formando un movimento di liberazione che ha lo stesso nome di quegli anni di fuoco: Veneto Serenissimo governo.
 
 
Era domenica 23 marzo 1997 quando Andrea Viviani, insieme ad altri cinque componenti del Veneto Serenissimo governo, tra i quali l’altro veronese Luca Peroni, il lodigiano Luigi Faccia e il padovano Antonio Barison salirono sul monte San Briccio per compiere il primo «attacco» scaligero sulle onde che stavano trasmettendo il Tg 1 delle 20. «Io svolgevo le funzioni di palo, controllavo che non arrivasse nessuno», racconta Andrea Viviani, «mentre chi svolse le interferenze con le antenne sul Tg1 furono Faccia e Barison».
Che atmosfera regnava nel vostro gruppo?
«Eravamo molto soddisfatti, soprattutto, dopo l’incursione al Tg1 del 17 marzo a Venezia. Avevamo tentato più volte senza, però, mai raggiungere lo scopo. Da quel giorno le cose sono cambiate visto anche le clamorose reazioni su giornali e tivù che suscitarono le nostre iniziative».
Qual era lo scopo di quegli atti dimostrativi?
«Volevamo divulgare i nostri ideali in occasione del duecentesimno anniversario della fine della Repubblica Veneta. Volevamo preparare il popolo della nostra regione all’evento del 9 maggio (l’assalto in piazza San Marco ndr).
Non ritiene che fu un gesto troppo grave e inquietante per ricordare quei fatti di duecento anni prima? Avete usato anche un tanko e le armi.
«Le ripeto: non lo rifarei ma non sono pentito. D’altro canto, dovevamo reagire all’ingiustizia subita nel 1866».
A cosa si riferisce?
«Il Veneto in quell’anno è stato occupato militarmente con la forza dello Stato».
Ma ci fu anche un plebiscito che sancì la volontà del popolo veneto ad unirsi all’Italia.
«In quella votazione, chi optava per il no, veniva schedato e, infatti, ci furono solo 69 schede contrarie all’annessione sulle 694mila depositate nelle urne. Si trattò di un plebiscito illegale».
Lei fu arrestato subito dopo l’assalto a San Marco il 9 maggio 1997. Quanto rimase in carcere?
«Restai per due mesi, poi tornai in cella nel marzo del ’99 e ne uscii definitivamente nel settembre di quello stesso anno».
Che ricordo ha del periodo trascorso in carcere?
«Ho letto molto e avevo come compagno di cella il mio amico Luca Peroni con il quale ci siamo sempre trovati bene».
Lei non ritiene di aver rischiato parecchio in quelle azioni indipendentiste?
«Ma c’era qualcuno che dall’alto mi ha sempre protetto».
A chi si riferisce?
«A San Marco, ovviamente».




INTERVISTA CHOC AI FIGLI DI UNA KAMIKAZE

Dhoha e suo fratello Muhammad, come tanti altri bambini palestinesi,  verranno psicologicamente violentati fino a farli diventare martiri, cioe’ assassini,  come la loro madre.

Dove sono le organizzazioni per i diritti dei bambini quelle che denunciano giustamente i bambini-soldato in Africa ma che hanno evidentemente i paraocchi e non vedono i bambini terroristi in Palestina! Come possono tacere? Con che coraggio non denunciano?

E nonostante ciò esponenti del Governo Italiano continuano a passeggiare con chi inneggia alla politica del terrorismo….

 
GERUSALEMME – L’emittente televisiva Al Aqsa a Gaza, che è controllata da Hamas, ha trasmesso di recente un’ intervista, che non è esagerato definire agghiacciante, a due bambini di pochi anni, figli di Rim Al-Riyashi, una palestinese di 23 anni che il 4 gennaio del 2005 si fece esplodere all’altezza del valico di Karni, tra Gaza e Israele, causando, oltre alla sua, la morte di cinque israeliani.

 L’intervista, dalla quale traspare chiaramente l’elogio del gesto della donna, sembra rafforzare le accuse di Israele che i libri di testo diffusi nelle scuole palestinesi, in special modo nelle ultime edizioni, non educano i giovani alla pace e alla coesistenza e mirano a dare al conflitto con Israele – definito creazione dell’ ‘imperialismo occidentale’ – un carattere di guerra religiosa dell’Islam.

L’intervista e la traduzione dall’arabo sono stati diffusi alla stampa da Memri, un centro israeliano di monitoraggio di quello che dicono e scrivono i media arabi. Nel filmato della Tv, andato in onda lo scorso 8 marzo, l’ intervistatore si rivolge al figlio Mohammed e alla figlia Dhoha di Riym Al Riyashi, minuscoli affondati in due poltrone nere, con i piedi che non toccano neanche il pavimento; lei composta nel suo golfino verde con le braccia quasi sempre conserte, lui più irrequieto, con una felpa rossa. Ai due bambini l’intervistatore chiede se sappiano dove sia andata la madre.
Dhoha: In Paradiso.
Intervistatore: Cosa ha fatto la mamma?
 D – Ha commesso un atto di martirio
I – Ha ucciso ebrei, non è vero? Quanti ne ha ucciso, Mohammed?
Mohammed – Heh?
I – Quanti ebrei ha ucciso la mamma?
M – Molti
I – Quanti?
M – Cinque (mostrando le dita della mano sinistra aperta)
I – Vuoi bene alla mamma, ti manca la mamma? Dov’é la mamma, Mohammed?
 M – In paradiso I – Dhoha, cosa vorresti recitare per noi?
D – "Nel nome di Allah misericordioso e compassionevole: quando verranno l’aiuto di Allah e la vittoria e vedrai la gente aderire in massa alla religione di Allah, allora celebra gli elogi del tuo Dio, chiedi il suo perdono perché egli è sempre pronto alla misericordia". L’intervistatore chiede successivamente a Dhoha che altro vorrebbe recitare e lei risponde ‘Mama Rim’. L’intervistatore si rivolge poi a Mohammed e gli chiede se sappia recitare. Mohammed risponde di sì.
 I – Vai avanti allora, recita qualcosa per noi. Cosa ti va di recitare? ….
M – Io sono in un asilo
I – Ci stai bene?
M – Sì
D – Io sono in un asilo, voglio raccontare
I – Vai avanti allora, raccontaci. Sei in un asilo anche tu. Sei in un asilo, Dhoha, o in una scuola elementare?
 D – In un asilo M – Anche io sono in un asilo
D – Io voglio parlare dell’asilo, voglio parlare
I – Cosa vorresti recitare per noi? Conosci la poesia ‘Mama Rim’? Vai avanti, recitala per noi
D – Rim, tu sei una bomba di fuoco… I tuoi figli e la tua mitragliatrice sono il tuo motto
I – Mohammed, vai avanti e recita…
M – Io sono in un asilo
D – Basta, sono stanca
 I – Va bene, vuoi andare dalla mamma?
Dhoha dice di sì, probabilmente senza rendersi conto del senso terribile della risposta che così conclude l’intervista.




"Te farò inamorar…" …delle elezioni???

Come volevasi dimostrare

Da "Il Gazzettino" di Lunedì, 19 Marzo 2007

 

"Te farò inamorar…" Uno slogan …

"Te farò inamorar…" Uno slogan che ripete un vecchio adagio musicale di memoria veneta è quello che il movimento dei "Serenissimi " ha diffuso a Breda e dintorni in questi giorni, preparando l’incontro pubblico che ieri mattina alle 10 si è tenuto a villa Olivi a Breda.
Una mattinata nella quale il movimento dei "Veneti" ha voluto presentare quelle che per il movimento può significare la base per una propria presenza futura sul suolo bredese. Certamente la scelta non è stata casuale: a fine maggio Breda sarà chiamata alle urne per le amministrative e non appare poi così remota la possibilità che il movimento indipendentista veneto sia presente con una propria lista. Almeno questo è stato ventilato, tra una battuta e l’altra, da Renato Modolo, uno dei Serenissimi che da sempre vive e opera nel territorio, impegnandosi in quella che vuole essere, a suo dire, non una guerra contro le istituzioni, ma una presenza affinchè la terra veneta abbia un futuro autonomista, staccato da quei legami che rendono la nostra regione quasi suddita del governo centrale.

L’aver avuto poi dal Comune la possibilità di utilizzare la sala consiliare per il loro appuntamento di presentazione del movimento alla cittadinanza, è stato vissuto come un gesto di rispetto. «Il sindaco Raffaella Da Ros – afferma sorridendo Patrik Riondato – non deve sentirsi in imbarazzo nell’averci concesso l’uso della sala consiliare: non siamo dei sovversivi, rispettiamo il tricolore pur non ritenendolo la nostra bandiera. Siamo degli indipendentisti». Alla domanda del perché nessuno di loro sia "capo", è ancora Riondato a rispondere: «Il nostro movimento non ha capi perché l’essere capi significa essere fallibili e quindi soggetti all’errore. Evitando questo strutturazione e ponendoci tutti allo stesso livello, diventiamo veramente ed in modo autentico un movimento di popolo». E tra bandiere con il leone di San Marco, scudetti blu con la scritta "Veneto" e altri gadget, la mattinata si è dipanata tra video, discorsi e brindisi con il taglio di una bella torta che voleva essere il segno per festeggiare l’assoluzione di tre serenissimi : Gilberto Busan, Flavio e Cristian Contin.

Significativa la presenza all’incontro di un personaggio storico locale: il maestro Marino Coglievina, il quale da sempre sta portando avanti le sue idee indipendentiste essendo egli un profugo giuliano che dovette riparare in Italia dall’allora ex Jugoslavia di Tito.

Remo Cattarin