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Apologia dell’Occidente

2 Aprile 2006
Bologna
Il testo del discorso alla manifestazione “Per l’Occidente” del Presidente Marcello Pera.

1. Perché
Cominciamo dal perché. Perché questa manifestazione? Perché difendere l’Occidente?
Il Manifesto che abbiamo lanciato dà risposte senza margini di ambiguità. Perché l’Occidente è oggi attaccato dall’esterno dal terrorismo e dal fondamentalismo di matrice islamica. Perché l’Occidente mostra difficoltà a dare risposte ferme e a trovare la giusta linea di difesa. E perché i principali valori che sono tipici dell’Occidente, e che sono anche i valori battesimali della sua lunga storia, sono manifestamente in crisi dentro lo stesso Occidente.
Dico Occidente, ma tutti naturalmente pensiamo all’Europa. Perché è qui, in Europa, che la crisi è più profonda.
Se dei terroristi ti fanno una strage sul tuo suolo e tu ritiri le truppe che sono in prima linea proprio contro il terrorismo, allora vuol dire che sei tu, Europa, che credi di essere la causa di quell’attacco terroristico.
Se assaltano le tue ambasciate e i tuoi consolati, bruciano le tue chiese, uccidono i tuoi fedeli cristiani, e sostieni che le vignette satiriche danesi sono andate oltre il lecito, mentre tutto è lecito quando la stessa libertà di satira viene usata contro le tue religioni, allora vuol dire che tu, Europa, ti senti responsabile di quelle violenze, e alla fine ti nascondi e ti accingi a chiedere scusa.
Ancora. Se tu, Europa, vieni chiamata a difendere l’esistenza di Israele, e hai difficoltà a riconoscere quali sono le organizzazioni terroristiche, che magari tu stessa finanzi, o consideri poco più che stravaganze a fini interni le dichiarazioni di Hamas e le minacce atomiche dell’Iran, allora vuol dire che tu, Europa, non vuoi prenderti le tue responsabilità e preferisci voltare la tua testa per non vedere.
E infine. Se tu vieni chiamata ad impegnarti in un programma di promozione della democrazia in tutto il Medio Oriente e rispondi che la democrazia non si esporta, allora vuol dire che tu, Europa, non hai più la consapevolezza dei tuoi princìpi e valori e, mentre agiti le bandiere multicolori del pacifismo, neppure ti accorgi che è proprio contro l’interesse della pace tollerare gli intolleranti.
Che cosa succede in Europa? Succede che nella cultura dell’Europa, nella sua classe politica, nel suo costume, si diffondono una sindrome di colpevolezza, una sindrome di smemoratezza, una sindrome di svogliatezza.
La sindrome di colpevolezza dice che se altri ci attaccano, allora hanno le loro ragioni e queste ragioni sono le ingiustizie da noi causate.
La sindrome di smemoratezza sostiene che noi ormai siamo laici, oppure siamo credenti “adulti”, e perciò abbiamo superato la fase in cui la nostra tradizione religiosa era parte della nostra identità.
Infine, la sindrome della svogliatezza afferma che non possiamo rivendicare la nostra identità, perché questo comporterebbe una forma di arroganza o di mancanza di rispetto verso altre culture e civiltà.
Ben poche voci delle istituzioni, della politica e della cultura hanno denunciato e respinto queste tre sindromi. In Europa, oggi si vive andando avanti, e si va avanti tirando a campare. Solo un grande uomo ha avuto il coraggio di guardare in faccia questa crisi, di denunciarla e di appellarsi alle “minoranze creative”, come quelle che oggi sono qui raccolte, affinché si adoperino per superare la crisi. Quell’uomo è Benedetto XVI.
Ha scritto il cardinale Ratzinger ora Benedetto XVI:
«C’è un odio di sé dell’Occidente che è strano e che si può considerare solo come qualcosa di patologico … della sua storia vede ormai ciò che è deprecabile e distruttivo, mentre non è più in grado di percepire ciò che è grande e puro. L’Europa ha bisogno di una nuova – certamente critica e umile – accettazione di se stessa, se vuole davvero sopravvivere» (M.Pera, J.Ratzinger, Senza Radici, Mondadori 2004, p.71).
Lo stesso Cardinale Ratzinger aveva anche scritto:
«Si diffonde l’impressione … che il sistema di valori dell’Europa, la sua cultura e la sua fede, ciò su cui si basa la sua identità, sia giunto alla fine e anzi sia già uscito di scena… Il confronto con l’Impero Romano al tramonto si impone: esso funzionava ancora come grande cornice storica, ma in pratica viveva già di quei modelli che dovevano dissolverlo, aveva esaurito la sua energia vitale» (ivi, pp.59-60).
Sono parole allarmanti, queste, che non dovremmo criticare perché le dice un Papa, ma che, al contrario, dovremmo considerare con attenzione proprio perché le dice un Papa.
E allora guardiamola più in dettaglio questa crisi dell’Occidente europeo.

2. La Costituzione europea: radici e frutti
Prendo fra tutti i sintomi della crisi la Costituzione europea, ora fallita. Sul fatto che nel Preambolo generale e nel Preambolo della Carta dei diritti (la seconda parte) non siano menzionate le radici cristiane del nostro Continente ci sono in giro una tesi euforica e una tesi autoconsolatoria.
La tesi euforica è quella dei laicisti. Essi sostengono che quella citazione sarebbe stata contraria ai nostri Stati laici e di offesa ai molti cittadini di altre religioni o non credenti. Ma questo è un incredibile errore di chi si dice laico mentre in realtà è laicista. È l’errore di chi ha passato la soglia della tolleranza liberale, quella che ammette il libero gioco nella società di tutte le religioni, ed è scivolato nella ideologia illuminista e giacobina, quella che abolisce tutte le religioni, salvo naturalmente la religione positiva, fondata su una presunta Dea Ragione o su un acritico Dio della scienza.
Noi laici – credenti o non – dobbiamo respingere questa ideologia. La dobbiamo respingere per ragioni storiche: dove sarebbe l’Europa senza Pietro e Paolo, senza Cirillo e Metodio, senza Agostino e Tommaso, senza San Benedetto e il monachesimo, senza la rivoluzione scientifica del cristiano Galileo, senza i valori – primo fra tutti la dignità della persona, in quanto immagine di Dio creatore e padre – della tradizione biblica e evangelica?
Ma soprattutto noi dobbiamo respingere questa ideologia laicista perché è falso dire che alla base dei nostri Stati liberali non ci sia un’opzione etica, è falso ritenere che la democrazia si basi solo su se stessa, è falso sostenere che la religione non contribuisca a tenere insieme la nostra società. Al contrario, la religione, oltre che una fede personale, è un legame sociale, un fattore imprescindibile della vita pubblica.
Togliete la religione e avrete tolto il nostro ethos.
Togliete la religione e ci avrete privato di gran parte della nostra identità.
Togliete la religione e non riconosceremo più i nostri padri e i nostri fratelli, non avremo più guide, maestri e giudici a orientare le nostre coscienze.
Falso e contraddittorio è il laicismo. Se davvero sei un liberale, non puoi negare che il primato liberale dell’individuo sullo Stato deriva dal primato della persona, nel senso introdotto dal Cristianesimo. Se sei un democratico, non puoi n
egare che alla base del concetto di uguaglianza dei cittadini c’è l’uguaglianza cristiana di tutti gli uomini, perché tutti, senza distinzioni, figli di Dio. E naturalmente se sei un autentico conservatore, non puoi negare che la prima cosa da conservare sia proprio la nostra tradizione, quella che ci dà la nostra identità.
Puoi essere un non credente, naturalmente. Ma allora hai due strade davanti a te: o quella minima del “perché non possiamo non dirci cristiani” oppure quella più impegnativa del “perché dobbiamo dirci cristiani”, cioè perché dobbiamo riconoscerci tutti figli della stessa storia, e perciò tutti impegnati ad affermarla, difenderla e promuoverla.
A differenza della tesi euforica dei laicisti, la tesi autoconsolatoria dei cristiani cosiddetti “adulti” dice che la mancata menzione delle radici cristiane nel Preambolo della Costrituzione europea non comporta alcun danno. Importante – essi sostengono – non è il Preambolo, che non menziona il cristianesimo, importanti sono i contenuti degli articoli, che invece ne recepiscono i contenuti essenziali. I più cinici fra questi cristiani adulti si spingono fino al punto di dire che i credenti non dovrebbero lamentarsi, perché le Chiese hanno visti dall’art.I-52 della Costituzione europea riconosciuti e salvaguardati i regimi concordatari di cui godono in alcuni paesi.
Lasciamo i cinici al loro destino cinico e vediamo gli articoli supposti cristiani della Costituzione. Prendiamo l’art.II-69. Esso dice:
«Il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio».
Che cosa vuol dire? A prima vista, l’articolo è ridondante, perché il diritto di sposarsi sembra lo stesso che il diritto di costituire una famiglia. Possibile che i Padri della Costituzione non sappiano esprimersi correttamente nelle loro lingue? Non è possibile. E allora, l’articolo va preso alla lettera: ci sono due diritti, uno di sposarsi e uno di costituire una famiglia.
Ora, concesso che il diritto di costituire una famiglia si riferisca alla famiglia eterosessuale quale da millenni conosciamo e dunque anche al diritto di avere figli, a che cosa si riferisce il diritto di sposarsi? Sposarsi chi con chi? Sposarsi anche tra omosessuali? Sembra di sì. Ma, se è così, si può dire, come dicono i cristiani adulti e retori della cristianità intrinseca della Costituzione europea, che le unioni omosessuali sono un omaggio al cristianesimo? No, non si può dire. Quelle unioni, in realtà, sono una ferita al cristianesimo e alla nostra tradizione. E dunque quell’articolo della Costituzione europea non ha un contenuto cristiano.
Proviamo allora con un altro articolo. Prendiamo il II-63. Esso dice:
«Nell’àmbito della medicina e della biologia devono essere in particolare rispettati … d) il divieto della clonazione riproduttiva degli esseri umani».
Eccellente, e davvero consolatorio! I Padri Costituenti ci assicurano che non faremo la fine della pecora Dolly. Ma nell’ambito della clonazione non riproduttiva, cioè quella terapeutica, che cosa dice quell’articolo? Non dice nulla. Ma se non dice nulla, allora dice che la clonazione terapeutica è lecita, dunque dice che non ci sono ostacoli giuridici alla sperimentazione scientifica.
Domanda: anche se con gli esperimenti si dovessero sacrificare embrioni e forse feti? . Anche a costo di considerare la vita e la persona umana solo come strumenti per un fine, come “cose” utili per conseguire altri beni utili? .
E allora non ci resta che concludere che neanche questo articolo recepisce contenuti cristiani.
Mi si obietterà che altri articoli della Costituzione europea hanno senso diverso.L’art.II-84, ad esempio, dice:
«I minori hanno diritto alla protezione e alle cure necessarie per il loro benessere».
E l’art. II-85 dice:
«L’Unione riconosce e rispetta il diritto degli anziani di condurre una vita dignitosa e indipendente e di partecipare alla vita sociale e culturale».
Queste sono cose buone. Ma com’è, allora, che in Europa si teorizzano e praticano l’eutanasia e l’eugenetica? Com’è che la Costituzione europea non le proibisce esplicitamente? Forse perché la vita degli anziani non è più vita se non è “indipendente”? Forse perché la vita dei nascituri o dei neonati non è degna di tutela se essi non possono averne una di qualità?
La conclusione è che su questioni fondamentali come il matrimonio e la vita, i giovani e gli anziani, la Costituzione europea non recepisce affatto valori cristiani. Si abbia allora il coraggio di dire, senza farci rinchiudere in una gabbia di retorica, reticenza, astuzia, che la Costituzione europea, quella di cui, come dei morti, non si può parlare se non bene, è essenzialmente una Costituzione laicista, perché non solo non menziona il cristianesimo nel Preambolo, ma se ne dimentica anche negli articoli. Quella Costituzione non ha radici cristiane e, non avendole, non dà frutti cristiani.
Questa è – dispiegata in belle lettere costituzionali – la crisi dell’Europa. Questa è la ragione per cui l’Europa, anche se attaccata, non si difende. L’Europa sta perdendo la sua anima. Esattamente come è scritto nel nostro Manifesto, l’Europa “nasconde e nega la propria identità”. Contro questa tendenza, noi che siamo probabilmente “minoranze intellettualmente creative”, ma che altrettanto probabilmente siamo anche interpreti di “maggioranze silenziosamente consapevoli”, dobbiamo reagire. Non possiamo limitarci alla sola denuncia.

3. Contro relativismo e multiculturalismo
Contro la crisi dell’Occidente e soprattutto dell’Europa, il nostro Manifesto avanza dei rimedi.
Noi rivendichiamo il diritto alla vita e la sua tutela dal concepimento alla morte naturale. Sappiamo delle tragedie personali e familiari, sappiamo della drammaticità di certe scelte. Per questo non chiediamo l’abolizione della legge sull’aborto. Chiediamo però che non si dica che si tratta di una “conquista sociale” o di un “diritto di civiltà”. Chiediamo che non si dica che la soppressione di un feto non sia l’eliminazione di una persona. Chiediamo che non si sostenga, con spensierato scientismo, che prima del quattordicesimo giorno non c’è né individuo né persona.
Noi difendiamo la famiglia come “società naturale fondata sul matrimonio”, esattamente come è scritto nella nostra Costituzione, e non intendiamo equipararla a qualsiasi altra forma di unione e legame, comunque verbalmente formulato. Siamo contro le unioni omosessuali, non perché discriminiamo le persone in base alle loro tendenze sessuali, ma perché riteniamo che il divieto delle forme matrimoniali o paramatrimoniali delle unioni omosessuali non sia una discriminazione, ma un saggia misura per evitare danni sociali, soprattutto ai figli.
Noi difendiamo la libertà religiosa, per chi aderisce alla confessione cristiana, per chi ne professa altre, per chi non crede. Perché la libertà religiosa è una forma fondamentale e universale della intangibile libertà di coscienza, che nessuna società e nessun Stato possono comprimere.
Noi sosteniamo il diritto alla libertà di educazione. Se l’educazione è un bene pubblico, non pu&
ograve; essere garantita soltanto da scuole statali. La pluralità dell’educazione è una fonte di ricchezza per tutti.
Noi sosteniamo la sussidiarietà, perché è un sano principio cristiano e liberale, che esalta il primato della persona, non la rende suddita dello Stato, e le consente di sviluppare tutte le sue potenzialità.
Ma, soprattutto, noi sosteniamo la universalità dei nostri valori. Siamo fermamente convinti che la dignità della persona, il rispetto per la vita, l’uguaglianza degli uomini, la parità fra uomo e donna, la tolleranza per gli stili di vita, il rispetto di tutti – dico tutti – gli interlocutori siano princìpi che non riguardano solo noi, o beni di cui dobbiamo godere solo noi, o privilegi che competano solo a noi. Essi valgono per noi come per gli altri.
Per questo, quando ci rivolgiamo agli altri, chiediamo reciprocità. Non perché dobbiamo proibire le moschee se altri proibisce le chiese e le sinagoghe: questa sarebbe ritorsione, ed è contro i nostri princìpi. Al contrario, perché, come noi consentiamo moschee, altri, reciprocamente, debba consentire chiese e sinagoghe. E finché non lo consenta, continueremo a chiederlo.
Per questo noi siamo contro il relativismo e le politiche che ne conseguono.
Il relativismo è una grave malattia culturale che, come un fiume carsico, attraversa la storia del pensiero occidentale, da Gorgia alla filosofia “postmoderna”.
E’ una malattia perché nega che ci sia qualche fondamento o giustificazione o base per le nostre scelte.
E’ una malattia perché fa dei nostri valori, comprese la libertà e la democrazia, accidenti storici buoni oggi e qui ma non più buoni domani e altrove.
E’ una malattia perché chi professa il relativismo crede di essere con ciò tollerante e democratico, e invece è così dogmatico da negare i fatti, anche il fatto che gli uomini preferiscono la libertà alla tirannide, le donne preferiscono avere gli stessi diritti degli uomini, tutti preferiscono la libertà di espressione, di coscienza, di religione, tutti amano l’uguaglianza e non le discriminazioni.
Infine, il relativismo è una malattia perché ci lascia senza parole di fronte a chi ci critica o ci denigra o ci attacca. Se uno stile di vita o una cultura vale l’altra, perché l’una e l’altra, per il sol fatto di essere culture, hanno la stessa dignità etica, come possiamo difenderci?
Si dice: noi non dobbiamo difenderci, dobbiamo dialogare. Ma cosa significa dialogare? Dialogare non è intrattenere una conversazione, dialogare non è chiacchierare. Dialogare è cercare di convincersi l’un l’altro o arricchirsi l’uno della concezione dell’altro. Ma come possiamo convincere un altro se non siamo convinti di noi stessi? Come possiamo affermare un principio se non lo consideriamo valido anche per l’altro?
Proprio nel dialogo con l’altro, questo pensiero relativista ha prodotto una politica sbagliata: il multiculturalismo.Che il primo sia padre del secondo non c’è dubbio. Se tutte le nostre convinzioni sono relative, allora tutte le comunità devono essere tollerate, non solo quelle che hanno concezioni simili alle nostre, non solo quelle che ne hanno di diverse, anche quelle che ne hanno di opposte e ostili. Alla fine, dovremmo tollerare anche quelle comunità che violassero i diritti e i valori riconosciuti nella nostra società, ad esempio la parità uomo-donna, il rispetto dei bambini, o la dignità della persona.
Di fronte a queste violazioni non potremmo dire niente. E infatti poco o niente dice l’Europa, con la conseguenza che il multiculturalismo sta producendo “società arcobaleno”, in cui ogni comunità tende a vivere separatamente, fino al punto che la separatezza, soprattutto per gli svantaggiati, crea divisioni, ghetti e tensioni sociali. O fino al punto – come già si sente dire e richiedere – che in certe città o zone dovrebbero valere leggi diverse dalle nostre, ad esempio la legge coranica anziché quelle dello Stato di diritto.
C’è un modo non multiculturalista di affrontare il problema del confronto fra le culture? Detto in termini politici attuali, c’è un modo non multiculturalista, che di fatto è già fallito, per affrontare il problema della integrazione degli immigrati? Questo è il momento di rispondere alle obiezioni dei nostri critici. In particolare una, la più odiosa che ci sia stata mossa: quella di essere razzisti.

4. L’Europa, l’immigrazione e l’Islam
Di Islam nel nostro Manifesto non si parla. Si parla di integrazione. Siamo forse diventati politicamente corretti? Stiamo nascondendo la testa sotto la sabbia?
No. Noi riteniamo che il fondamentalismo islamico sia un pericolo e che il terrorismo che si fa scudo della religione dell’Islam sia un rischio mortale. Contro questo rischio e questo pericolo noi dobbiamo usare tutte le armi – culturali, diplomatiche, politiche, negoziali, economiche, dell’informazione – e, se i terroristi usano le armi della violenza, allora, ove ci fossimo da essi costretti, anche il Compendio del Catechismo della Chiesa cattolica viene in nostro soccorso.
L’arma più importante e più efficace resta però quella della cultura. Nelle relazioni internazionali, questa è l’arma della richiesta della reciprocità rispetto ai nostri diritti. All’interno dell’Europa, è l’arma dell’integrazione.
Ma integrare come? Noi diciamo mediante la accettazione e la condivisione da parte degli immigrati dei nostri princìpi e dei nostri valori, quelli garantiti dalla nostra Costituzione e dalle altre Carte, europee e internazionali. Quando si tratti di rispetto di princìpi e valori fondamentali, dunque, niente separatezza, niente autonomia, niente tolleranza. Siccome questi sono beni di tutti, essi devono essere rispettati da tutti.
Ma, ci si può chiedere, in questo richiamo ai “nostri” princìpi e valori non c’è una forma di razzismo? Tutto il contrario. Perché noi, grazie alla nostra tradizione giudaico-cristiana e alla sua evoluzione, crediamo che tutti gli uomini siano ugualmente persone; e perché noi abbiamo stabilito che essi abbiano tutti gli stessi diritti. In noi non c’è razzismo, perché noi non siamo interessati alle razze umane, a noi stanno a cuore i diritti umani.
Si obietterà ancora: richiamandoti ai “nostri” principi, non alimenti forse una distinzione fra civiltà e perciò non ne favorisci uno scontro? Rispondo: no, noi ci richiamiamo ai nostri princìpi proprio per evitare lo scontro di civiltà. Ma naturalmente abbiamo occhi per vedere e leggere. Lo scontro di civiltà di cui si parla è oggi quella “guerra santa” che ci è stata dichiarata nel modo più tragico a partire dall’11 settembre 2001, perché, secondo chi ce l’ha dichiarata, noi saremmo colpevoli di essere “giudei e crociati”, cioè ebrei e cristiani. Possiamo ignorarlo questo fatto?
Non possiamo. E allora dobbiamo cominciare col dire che, , siamo ebrei e cristiani, , ne siamo consapevoli e vogliamo esserlo,, come ebrei e cristiani abbiamo messo in piedi, dopo tanti errori e orrori, dalla guerre di religione all’Olocausto, una civiltà che è la migliore fra quante abbiamo attraversato, perché è la più aperta, la più disponibile, la più osp
itale, la più universale.
Dunque, noi vogliamo evitare lo scontro. Ma se questo scontro esiste e se è contro di noi, allora noi dobbiamo vincerlo, perché o vinciamo la guerra che ci è stata dichiarata oppure la nostra civiltà scomparirà.
Non è l’Islam in sé il nostro problema, non sono gli uomini e le donne che professano la religione dell’Islam a preoccuparci, non è il confronto con le culture che ci reca timori. Ciò che ci preoccupa, qui in Europa, è l’indifferenza che vediamo, la cattiva tolleranza che pratichiamo, la scarsa convinzione di noi che abbiamo, il timore che nutriamo, la paura che mostriamo, e la resa a cui infine ci apprestiamo. Ciò che ci preoccupa è sentir sempre parlare di diritti delle minoranze e quasi mai di diritti della maggioranza.
Ripeto: il nostro nemico non è l’Islam. Il nostro vero nemico è la nostra incapacità a reagire a coloro che, facendo dell’Islam uno strumento, decidono di aggredirci nei nostri princìpi e valori più cari.
L’Islam, come qualunque altra religione che abbia convinzione di sé e volontà di proselitismo, è un rischio solo se l’Europa si arrende al buonismo, all’indifferentismo, al relativismo, al multiculturalismo, al pacifismo. L’Islam è un rischio se perdiamo la nostra identità, se decidiamo di non averne una, o, il che è lo stesso, se – come è scritto nel programma elettorale dell’Unione – accettiamo l’idea di una “identità in divenire”.
[…]
Marcello Pera




1° marso 2006 – Bon ano novo

Il primo di marzo è tradizionalmente il capodanno delle antiche popolazioni europee…..

1° marso 2006 – Bon ano novo  (m.v.)

El primo de marso el xe el cao de ano de le antighe popolasion europee, e anca la storia de Roma ga testimonià sta uxansa almanco fin al 153 a.c..
Invese atorno al 1000 d.c., coando el Ducato Veneto (che ancora non gavea decixo de ciamarse Republica de Venesia) grasie a la so potensa se ga goadagnà l’indipandensa da Bisanzio (Impero roman d’oriente) e ga mantegnù la so libartà dal Sacro Romano Impero Germanico, el ga decixo de riadotare l’antigo calendario, de cui comuncoe jera senpre restà viva tra la popolasion la memoria de le antighisime uxanse del Bruxa-Marso o Bati-Marso o Ciama-Marso.
Da lora par 800 ani el Stato Veneto ga manteguo costantemente ch’el tipo de calendario, fin a l’infausta jornada del 12 majo 1797 coando xe rivà i fracioxi comandà da l’infame Napoleon.
Le tradision popolari ga senpre caminà par conto suo anco dopo la scancelasion de tute le istitusion venete da parte de Napoleon e de l’italia dopo.  
Fin a pochi deceni fa jera uxansa in tute le Venesie, impisare falò e nare in volta par i paexi co busoloti e pegnate faxendo bacan.
Purtropo la televixion ga fato coelo che doxento ani de ocupasion foresta non xe sta boni de fare: ga scancela le nostre tradision e la nostra cultura.
Ve invito duncue a brindare e fare i auguri ai Vostri amisi, come xe sta par mileni so ste tere.
Auguri ancora de on bon ano 2006 m.v.
Grasian Agujaro
Portavoçe Rexistensa

1° marzo 2006 – Buon anno nuovo (m.v.)
Il primo di marzo è tradizionalmente il capodanno delle antiche popolazioni europee e persino la storia di Roma ha testimoniato questa usanza almeno fino al 153 a.c.
Invece attorno all’anno 1000, quando il Ducato Veneto (che non aveva ancora deciso di darsi il nome di "Repubblica Veneta") grazie alla sua potenza ottenne l’indipenza da Bisanzio (Impero Romano d’Oriente) e mantenne salda la sua libertà dal Sacro Romano Impero Germanico, decise di riadottare l’antico calendario, di cui comunque era rimasta sempre viva nella memoria delle popolazioni l’antichissima usanza del Brusa-Marso, Bati-Marso o Ciama-Marso.
Da allora e per 800 anni lo Stato Veneto ha costantemente mantenuto quel tipo di calendario, fino all’infausto giorno del 12 maggio 1797 quando arrivò l’infame Napoleone a capo della masnada di francesi.
Comunque le tradizioni popolari sono sempre rimaste vive anche dopo la cancellazione delle istituzioni Venete da parte dell’infame Napoleone e dell’Italia poi.
Fino a pochi decenni fa era usanza comune in tutte le Venezie accendere falò al tramonto e girare di notte per i paesi con barattoli di latta e pentole facendo un baccano infernale.
Purtroppo la televisione è riuscita a fare quello che duecento anni di invasioni straniere non erano riuscite a fare: ha cancellato le nostre tradizioni e la nostra cultura.
Vi invito dunque a brindare e a fare gli auguri ai Vostri amici, com’è stato per millenni su queste terre.
Auguri ancora di buon anno 2006 (m.v.)
Graziano Agugiaro
Portavoce Rexistensa



L’Europa Unita ha Vinto La Battaglia di Vienna

Contributo di Germano Battilana che ha attualizzato gli scenari che erano presenti ai tempi della battaglia di Vienna (1683).


Il 12 settembre 1683, presso la collina di Kahlemberg (nei dintorni di Vienna), 65000 cristiani affrontano in battaglia campale e sconfiggono 200000 islamici. Sono passati 321 anni dalla gloriosa battaglia, per la salvezza della cristianità e dell’Europa. Sembra che tutto questo sia un passato lontano, invece tutto quanto avvenuto si sta riproponendo con una similitudine stupefacente: gli scenari sono gli stessi. Da una parte l’espansionismo islamico e le quinte colonne: i governanti traditori di Francia (Chirac) e di Spagna (Zapatero) dall’altra la Mitteleuropa e i Popoli Slavi. Ovviamente ci sono le varianti riconducibili: l’espansionismo islamico sta facendo il massimo sforzo per incastrare in una tenaglia l’Europa, partendo dalla Spagna e dai Balcani, è quindi necessario che l’alleanza del 12/09/1683 tra tedeschi, ungheresi, cechi, croati, slovacchi, veneziani, polacchi, serbi romeni, bulgari, austriaci dia vita a una grande unione politica in grado di contenere le forze islamiche.
In questo contesto chiediamo agli USA e al suo Presidente di ridare immediatamente la sovranità al Popolo Serbo. Noi affermiamo che il Kosovo è Serbo da sempre, e deve ritornare ad essere tale. Chiediamo inoltre che il Presidente serbo Slobodan Milosevic sia, senza indugio, liberato e messo in condizione di difendere la sua gente.
La guerra sbagliata e anticristiana contro la Jugoslavia ha permesso al terrorismo islamico di installarsi al centro dei balcani, cioè all’interno della nostra Europa. Gli stessi accordi di Rambouillet disonorano chi non li ha rispettati.
Siamo perfettamente coscienti che a Roma manca un immenso Papa, come Innocenzo XI, e in Europa non ci sono né  un grande condottiero militare come il re di Polonia Giovanni III Sobieski né una grande guida spirituale come il Santo Marco d’Aviano, che con la protezione della Madonna e dell’Arcangelo Gabriele ha illuminato e guidato i cuori e le menti dei nostri difensori di Vienna.
L’onnipotente non può abbandonare i suoi figli, se questi si dimostrano degni di essere tali; nessun sacrificio può essere insopportabile per la salvezza della Cristianità. Le nostra chiese non dovranno mai essere delle scuderie per i mussulmani. Bisogna prepararsi al grande scontro, essendo certi che Dio è con noi. Tremino gli islamici e i loro giannizzeri, europei e non.

Germano Battilana



Le Fallacie Ufficiali

Dalla pax romana alla spuria "pace italiana"

Possiamo elencare parecchie varietà di tirannia: le dittature antiche, medievali e moderne, i dispotismi aperti e dissimulati, le innumerevoli autocrazie, oligarchie e plutocrazie, che durante il lungo percorso della storia hanno devastato la società umana. I tipi più comuni della tirannia sono due: quello spudorato e brutale, senza pretesti o persuasione artificiosa. Il secondo tipo di dispotismo, fondato a volte attraverso l’occupazione militare ma più spesso per l’imposizione economica-culturale, è più sottile del primo: ben intenzionato in apparenza ma totalmente ipocrita; persuasivo ed esperto nell’effettuare la cinica acculturazione, il lavaggio del cervello che non di rado convince gli oppressi a credere sinceramente che il sistema oppressivo lavora per il bene comune.
La storia della penisola italica dimostra lo sforzo costante del potere di creare una vasta zona d’influenza di tendenza sempre più imperialista. Gli antichi romani hanno convertito migliaia di vicini in sudditi, strappandogli senza scrupoli terre, beni, donne, e perfino l’identità culturale/etnica, attraverso l’imposizione della cultura romana. L’espansione romana, nell’epoca imperiale, si è estesa dalle coste atlantiche fino all’Asia centrale: tutto quel territorio obbligato ad osservare la stessa legge romana. Ma quel sistema apparentemente omogeneo non ha portato la pace, solo la sottomissione ritrosa e, in molte zone, il conformismo. Quando i Cesari non hanno potuto conquistare con le armi, hanno studiato una politica "soft", offrendo ai popoli limitrofi una "amichevole federazione" o "associazione" con Roma. Anche questa scaltra tattica è quasi sempre risultata nell’acculturazione penetrante o nell’assorbimento sociopolitico del popolo federato.
Quella era la sorte riservata per tutti i gruppi etnici della penisola italica, tranne uno: la NAZIONE VENETA. I Paleoveneti, possessori di una brillante e originale civilizzazione, già plurimillenaria quando Enea guidava i primi Latini, dovuta alla fierezza e incorruttibilità morale della loro gente potevano resistere a tutti gli sforzi dei Romani di conquistare, assimilare o annettere il territorio Veneto. Gli statisti romani, conoscendo bene l’amore dei Paleoveneti nel tempo di pace e la loro intrepidezza nel tempo di guerra, invece di intraprendere azioni belliche hanno preferito firmare con loro un patto di amicizia, cooperazione e mutua difesa. Ma l’inabilità di conquistare quel popolo indomabile ha gravemente ferito l’orgoglio marziale dei romani. Benché lo status dei Paleoveneti riguardo all ‘impero, era quello di alleato, i romani per non cadere nel ridicolo hanno confezionato il famoso mito della "Decima regio Venetia et Histria", un territorio "ufficialmente" incluso dentro i confini dell’impero romano. Ma le fonti storiche imparziali, più l’evidenza archeologica, ci dimostrano che quell’eterea X regio non è mai esistita. Durante tutto il periodo imperiale, i Paleoveneti hanno continuato a promulgare la propria legislazione, a erigere la proprie pietre miliari, a fare affari commerciali e convegni con i barbari, in aggiunta ad effettuare missioni di pace e tenere a bada i potenziali nemici transalpini. I nostri antenati Veneti hanno conservato la loro toponomastica, i loro tipici nomi e cognomi, la loro venerabile religione. C’era, si, una certa "verniciatura", alquanto superficiale, di romanizzazione nel territorio Veneto… specialmente nell’iconografia artistica… ma il fondo della cultura è rimasta autenticamente Veneto.
Certi "studiosi" moderni si sforzano di "provare" al pubblico che la vasta maggioranza dei toponimi Veneti attuali deriva dall’antico latino. Anche questa è una fallacia capricciosa, creata per glorificare la presunta romanità del Veneto.
Considerando che la lingua Venetica, come il latino, è sorta dalla madre-stirpe Indoeuropea, la similitudine di questi due idiomi non deve sorprenderci. Ma dobbiamo ricordare che il Venetico antidata la lingua latina di parecchi secoli. In questo caso, e ricordando anche che Plinio enumera una tribù dei VENETULANI "fra i Popoli Laziali", possiamo anche immaginare che forse i Romani hanno preso in prestito terminologia e toponimi dei Paleoveneti, non viceversa.
Altri miti, manipolati per scopi propagandistici, sono quello del "buon troiano" Antenore e del "buon romano" Trasea Peto. Il fatto è che tutti e due erano Veneti… buonissimi genuini Veneti… ma questa è una realtà troppo scomoda per gli storiografi e politici del sistema italiano, che devono, ad ogni costo, cancellare ogni traccia della splendida civiltà Veneta perché, secondo loro, non esiste né mai è esistita una Nazione Veneta con storia cultura e identità propria. Secondo gli "studiosi" che si sono venduti allo stato invasore, Antenore… se non era un personaggio inventato, di favola… era soltanto un oscuro parente del Re Troiano Priamo. Dopo la guerra di Troia, sarebbe scappato dalle rovine di Ilium con un amorfa massa di profughi Troiani, Veneti e Anatolici; forse fondò un insediamento chiamato Padua, nell’Illiria! Che diversa dalla verità è questa versione! L’Antenore storico era Veneto, il rispettatissimo consigliere e guida morale del suo Popolo: supremo portavoce della pace, marito  e collaboratore della sacerdotessa di Reitia a Troia, fondatore di una nuova e gloriosa Patria ad Este, Padova, Altino, persino sulla laguna. Per quanto riguarda Trasea Peto, quest’ammirevole statista e filosofo, lungi dall’essere un rampollo di Romolo e Remo, era della più illustre stirpe Paleoveneta: un fermo difensore dei caratteristici valori Veneti come la libertà, la giustizia, la pace attraverso la tolleranza. Alleato di Roma, si sedeva con solenne dignità nel Senato ma non è mai stato un suddito servile, mansuetamente fedele al potere Romano! Infatti, Trasea Peto lottò tutta la vita, con molto coraggio e integrità di spirito, contro la cinica tirannia Imperiale. E’ stato lui, Trasea, il principale protagonista nel complotto che ha frustrato i progetti megalomani di Nerone, in particolare, il sinistro piano del demente imperatore di sopprimere la libertà politiche, sociali e religiose della Nazione Veneta. Trasea Peto, degnissimo di lode, ha sofferto il martirio: è martire ed eroe, ma per la causa Veneta, non quella di Roma.
 
Gli stessi sostenitori "dell’unita d’italia" che ci negano ogni briciolo di originalità, che rifiutano l’idea della grandezza preistorica dei nostri avi, scartano anche una delle date più importanti del nostro Calendario Patrio: la Fondazione di Venezia (25 marzo 421d. C.). Quegli ultra scettici, con una tipica mancanza di logica e di intelligenza, basano la loro incredulità sul fatto che certi manoscritti del basso medioevo esprimono dubbi sulla veridicità di quella data. Ciò nonostante, tutti i documenti Veneti anteriori al basso medioevo affermano la fondazione della Repubblica Veneta Lagunare precisamente il 25 marzo 421 d.C. Per quale strana ragione gli "studiosi" moderni hanno tanta fede nei manoscritti compilati molti secoli dopo il fatto, ma respingono come invenzione la preziosa evidenza storiografica che risale ad un epoca immediatamente successiva alla Fondazione?
Similmente, gli scettici ufficiali negano categoricamente o si beffano dei seguenti dati:
a)Il viaggio dell’Evangelista Marco nel territorio Veneto. Gli studiosi diffidenti ammettono che verosimilmente San Tommaso ha predicato in India, San Brendano ha scoperto le regioni Artiche e il continente americano; ma non accettano l
‘idea "osata" che San Marco abbia visitato le nostre coste.
b)La dichiarazione divina "PAX TIBI MARCE EVANGELISTA MEUS", ma i Romanisti accettano ben volentieri l’autenticità del messaggio a Costantino sul ponte Milvio.
c)L’acquisto legale delle reliquie di San Marco. I maliziosi convertono quest’episodio nel furto delle spoglie mortali del santo, perpetrato da due mercanti Veneziani senza scrupoli.
d)Il ritrovamento delle reliquie Marciane presuntivamente perse durante l’incendio del 976 d.C.
e)L’ininterrotta indipendenza Veneta, fino al 1797. Quasi tutti gli "storici" italiani insistono che i Veneti erano prima sudditi di Roma, poi di Bisanzio: benché esista abbondante evidenza per smentire questa soggezione.
f)L’esistenza del primo doge, Paolicio/Paoluccio Anafesto. Più di uno "studioso" lo ha identificato con l’Esarca Bizantino di Ravenna, benché nome e cognome sembrano d’origine greca (Pavliskos Anàfestos), questo magnifico personaggio, sia Veneto o Elleno, era sempre un sincero paladino del nostro Popolo; con straordinaria energia e lungimiranza, ha costruito i fondamenti del futuro splendore di Venezia.
g)L’abolizione della schiavitù. La Libera Federazione dei Popoli Lagunari, nucleo storico della Veneta Serenissima Repubblica, è il primo stato al mondo che ha UFFICIALMENTE ABOLITO LA SCHIAVITU’ (proclamazione del Doge Orso Ipato, ottavo secolo d.C.)
h)La dedizione spontanea dei comuni e dei territori esteri. Uno dei miti più sfacciati confezionati dai nemici di Venezia è quello del "progetto Imperiale" della V.S.R. Al contrario: la Serenissima da sempre deplorò e condanno qualsiasi tipo di aggressione coloniale, cinico espansionismo e invasione. Tanto profondo era l’universale prestigio della nostra repubblica, dovuto alla sua costante difesa della giustizia e autodeterminazione in tutto il mondo, che, le città di terraferma e dell’estero hanno richiesto l’incorporazione nel Dominio Veneto. E’ interessante osservare che il vocabolo DOMINIO in questo senso, deriva non da DOMINUS, signore, ma da DOMUS, casa. Così, le genti che si sono date alla Serenissima (DEDIZIONE= DEVOZIONE) diventano "amici di casa", godendo di tutti i privilegi della cittadinanza Veneta.
i)Il nostro idioma tradizionale è una lingua vera e propria, non un dialetto. La lingua Veneta ha avuto un evoluzione parallela a quella dell’italiano, con forte sopravvivenza degli elementi Venetici.
j)Un altro colossale, imperdonabile mito ufficiale è quello della "quasi unanime decisione" dei Veneti di unire il nostro territorio al regno Sabaudo d’italia nel 1866. Questo cosiddetto "referendum", una truffa sprezzante, un’insopportabile burla della volontà popolare, effettuato praticamente con la pistola puntata sui Veneti. Il Veneto Serenissimo Governo, dalla sua fondazione, ha sempre insistito sull’urgenza di rifare il referendum del 1866, con legalità e serietà, per determinare la VERA VOLONTA’ POLITICA DEI VENETI: se vogliamo considerarci cittadini della "repubblica" italiana o, invece, affermare il nostro diritto inalienabile all’INDIPENDENZA, al pieno godimento delle MILLENARIE TRADIZIONI E NORME GIURIDICHE VENETE.
Anche questo brevissimo elenco dei falsi miti, diffamazioni e abusi contro la nostra identità Veneta, ci dimostra la forza e persistenza dell’oppressione ufficiale attraverso i secoli. Il nostro Veneto, purtroppo, da più di due secoli è classificato erroneamente come parte di un’invenzione politica-amministrativa chiamata "italia". Ma noi siamo convinti che, dentro il cuore e dentro la coscienza di ogni Veneto di buona volontà, arde il riconoscimento delle nostre vere radici: un’origine che risale all’alba della civiltà Europea. Siamo Veneti, di una stirpe valorosa e fiera.
PER UNA RINNOVATA COSCIENZA MARCIANA!
VIVA IL VENETO SERENISSIMO GOVERNO!
Maria Fasolo



Timocrazia: la creazione del Governo ideale

Le radici della Timocrazia come forma di governo. Contributo di Maria Fasolo.

 

Oggi, la democrazia è quasi universalmente considerata come la forma idonea per la conduzione di uno Stato. Ciò nonostante, questo termine tanto diffuso e tanto ambiguo ha avuto interpretazioni molte equivoche attraverso i secoli. Pochi sono i politici che sembrano capire le sue piene implicazioni. La parola democrazia si deriva da DEMOS, il popolo/la massa, e da KRATOS, governo. Quindi, il significato giusto di DEMOCRAZIA è o pare essere "l’auto-governo delle masse". Ma anche durante l’antichità, seri studiosi e politologi sentivano molto scetticismo sulla fattibilità di quel concetto. Ovviamente, le masse non possono aspirare a prudentemente governare se stesse fino ad acquistare la necessaria preparazione socio politica: e la maggior parte delle cosiddette "società democratiche" furbamente negano questa ai cittadini.. Socrate e Platone, riconoscendo l’inerente incapacità delle rozze moltitudini di organizzarsi e agire in coordinazione per il benessere della comunità, hanno classificato la democrazia come una delle forme meno desiderabili. Anche Aristotele, un pensatore pragmatico, ha ammesso che la pratica democratica contiene molti difetti e può facilmente degenerare in demagogia o caos. Nella sua insistenza sull’individualismo e sulla spietata concorrenza economica, la democrazia è anche la pratica più conducente alla corruzione. Il tema principale della "Repubblica", il capolavoro di Platone, è questo: come gli esseri umani non nascono professionisti o scienziati, nemmeno sono dotati alla nascita di un naturale senso di responsabilità civica, o di ideali patriottici. Si deve INCULCARE questi valori nelle impressionabili anime dei bambini: educatori specialmente addestrati provvederanno ai ragazzi una formazione morale, civica, intellettuale, guidandoli fino a produrre una nuova generazione di statisti e governanti. Solo i più virtuosi, i più abnegati e i più capaci sarebbero selezionati per i vitali ruoli politici, come DEGNI RAPPRESENTANTI DI TUTTO IL POPOLO.
Benché molte persone associano "la Repubblica Perfetta" e la "Utopia" con filosofi come Platone e Thomas More, infatti l’idea e la pratica del Governo Ideale risalgono alla preistoria. Già prima di entrare nell’Asia Minore (cioè anteriore al 1500 a.C.), nostri antenati i Paleoveneti avevano iniziato uno sperimento timocratico nell’Europa Centrale, raggiundendo uno splendido successo. La preparazione etico-politica data ai giovani paleoveneti aveva risultato nella creazione auto-rigeneratrice di ottimi leaders sociali. Questo sistema, che sarebbe stato chiamato TIMOCRAZIA dai Greci e MERITOCRAZIA nei tempi più recenti, E’ L’UNICA FORMA DI GOVERNO PRATICATA DAL VSR IN TUTTI I SUOI PERIODI STORICI.
Si deve fare una chiara distinzione fra TIMOCRAZIA, DEMOCRAZIA e ARISTOCRAZIA. La democrazia…lotta fra partiti, gruppi di potere economico e classi sociali…non è mai esistito nel Veneto Marciano. La VSR, spesso, è stato descritta come una repubblica aristocratica. Possiamo ammettere questo concetto SOLO se il prefisso greco ARISTOS si può interpretare come NOBILE, nel senso di giustizia, rettitudine e filantropia, virtù che certamente caratterizono la maggior parte dei governanti della VSR. Ma è stato dimostrato, etimologicamente, che nel greco antico ARISTOS vuol dire NOBILE nel senso di PATRIZIO, SIGNORILE, di alta nascita, di "sangue blu": cioè, di antica stirpe principesca. Il nostro concetto moderno di ARISTOCRAZIA deriva da questo. Benché la maggior parte dei Serenissimi governanti erano senza dubbio membri dell’aristocrazia, loro MAI hanno ricevuto i loro posti per ragioni di nascita; l’acceso era infatti dovuto al loro merito provato, la loro lealtà, amore e servizio alla Veneta Patria.
Così, la VSR era una TIMOCRAZIA nel senso più pieno della parola, visto che TIMOS in greco significa PERFETTO, IL MIGLIORE. Si deve definire la TIMOCRAZIA come il governo dei cittadini più probi, più abili, più dedicati: uomini e donne che si sommettono volontariamente agli auto-controlli, che invece di cercare ricchezze e privilegi impiegano i propri risorse, tempo e conoscenza verso il progresso integrale della Nazione.

Di tutti gli Stati del mondo, antichi e moderni, solo la VSR e Sparta hanno potuto implementare e conservare una timocrazia. La Timocrazia Spartana durò qualche secolo, con molti interregni. Quella della VSR ha fiorito per più di 1000 anni. I pochi tentativi di convertire la Timocrazia Veneta in monarchia, signoria o oligarchia…come nei casi di Pietro Gradenigo, Marin Falier, Giovanni Corner…sono stati energicamente fermati dalla resistenza popolare.

 

Maria Fasolo



Uno spirito che non muore:la continuità della civiltà veneta




Plebisciti o atti d'imperio?

Studio di Adalberto Pizzato.

Plebi scitum, ossia norma votata dalla plebe su proposta dei tribuni romani: da qui il termine Plebiscito. Questa libertà decisionale della plebe tendente alla parificazione giuridica ai patrizi fu causa di frequenti conflittualità sociali difficoltosamente evitate con la emanazione di norme restrittive.
Si manifestò perciò sin da quei tempi lontani la tendenza del potere a "incanalare" le aspirazioni plebiscitarie del popolo verso prestabilite finalità occhiutamente mascherate con ambigue definizioni unilaterali e riduttive.
Tipico esempio è dato dalla formula del Plebiscito delle Provincie dell’Emilia e della Toscana indetto l’11-12 marzo del 1860:
"Annessione alla monarchia costituzionale del Re Vittorio Emanuele II, Ovvero Regno separato".
Non venne specificato "quale regno separato". Si pose deliberatamente in tal modo i votanti nell’incertezza della scelta. Questa formula di occhiuta "indeterminatezza", tipicamente cavourriana, è in evidente contrasto con il concetto di "plebiscito", una scelta cioè chiaramente espressa fra due o più possibilità adeguatamente evidenziate.
Mano a mano che la fagocitazione degli Stati Preunitari avveniva ad opera del colonialismo savojardo, la formula di rito subì sempre più riduttive e restrittive condizioni fino a configurarsi, nel 1870, una vera e propria "debellatio" dello Stato Pontificio.
Esaminando la situazione del Veneto, precisamente delle "Tre Venezie", constatiamo che con il trattato di Vienna del 3 ottobre 1866 le province Venete e di Mantova vengono dall’Austria cedute alla Francia e da questa al Regno d’Italia. Francesco Giuseppe, che nel 1859 aveva dichiarato di non annettere alcuna importanza alla volontà dei popoli, consente la cessione del Veneto "sous réserve du consentement des populations dument consultées".
Il plebiscito successivamente indettovi dalle Autorità Piemontesi (autodefinitosi "del Regno d’Italia") ebbe per il Veneto, come per quello umbro-marchigiano, la seguente formula:
"Dichiariamo la nostra unione al Regno d’Italia sotto il Governo costituzionale del Re Vittorio Emanuele II e dei suoi successori".
Punto e basta! Non si trattò pertanto di un "plebiscito", di una libera scelta decisionale fra diversificate e ben definite "tendenze". Si estorse con ingannevoli raggiri, sfruttando la sprovvedutezza delle popolazioni venete stanche di un dominio straniero (Francia prima e Austria poi) e dopo 70 anni dalla caduta della "Serenissima Repubblica di Venezia), una "acquiescente deliberazione unilaterale).
La partecipazione a quella "dichiarazione" che nulla ha a che vedere con un plebiscito fu molto scarsa. Al punto che furono indotti a votare addirittura i reparti militari piemontesi dislocati a presidio del Veneto.
Si trattò di una vera e propria burla diplomatica sostenuta da una ristretta cerchia del patriziato veneto avida di compensi onorifici.
A quel tempo mancò, purtroppo, un Daniele Manin che rivendicasse la gloriosa matrice dei Veneti e molti, troppi, furono i sotterfugi diplomatici, le mistificazioni storiche, le esaltazioni patriottarde dei Savoja. Se infine aggiungiamo la mentalità arrendevole ed acquiescente del popolo, spesso succube "al volere dei preti", e privo di esperienza "sociale" perché dominato fino allora da 70 anni di rigido governo straniero, è facile intuire il nefasto risultato di quel … plebiscito.
Ora, finalmente, ci siamo svegliati. Partiti allora col piede sinistro, constatiamo che l’Italia non può essere "UNA E INDIVISIBILE" perché è costituita da più nazionalità spontanee! Queste nazionalità ben diverse tra loro sono impositivamente "accorpate" – e con molta fatica! – in uno Stato accentratore e "federalista" a parole.
Conclusivamente, vengo a sottolineare la graduale illiberalità con la quale sono stati posti i "plebisciti" negli Stati Preunitari, mano a mano che venivano "accorpati" ricordando una "storica" affermazione del potere di Roma ormai capitale:… le reiterate manifestazioni di italianità da parte della Venezia Giulia e Tridentina e di Fiume vi hanno reso "inutile" qualsiasi plebiscito.
Sarà infine opportuno ricordare che i due plebisciti meridionali (21 ottobre 1860) indetti dalla dittatura di Garibaldi ebbero la seguente formula:
"Il Popolo vuole l’Italia una e indivisibile con Vittorio Emanuele Re Costituzionale e i suoi legittimi discendenti".
Se esaminiamo il tenore di tutte queste formule plebiscitarie come potremo sostenere che l’Italia si è costituita per libera volontà popolare?

Adalberto Pizzato




Separatismo opzione naturale

Studio di Maria Fasolo

 

 

In quest’epoca di crescente meccanizzazione e di rapporti impersonali sembra andare di moda il seducente suffisso "uni-" di derivazione latina. Ovunque, dai negozi di abbigliamento ai saloni di bellezza si trova l’etichetta onnipresente "unisex" come se l’omogeneizzazione dei sessi fosse qualcosa da desiderare.
Le chiese cristiane, divise da sempre su fondamentali ideologie teologiche adesso manifestano una tendenza forte verso l’unificazione. Altre tendenze che cercano di raggiungere l’unità spirituale ed etnica si manifestano nella forma del "panislamismo-panarabismo" ecc…
Sul piano politico-economico i giornali sono pronti a lodare i progetti per un sistema monetario unificato, per un Europa unita: un denaro un popolo ecc… ma benché questi notevoli sforzi di consolidamento e unità possono sembrare lodevoli a prima vista, dentro tutto ciò esiste una minaccia occulta alla dignità e all’individualità dell’uomo .
Questo fatto è stato pienamente capito da molte nazioni e gruppi etnici almeno all’inizio del secolo XIX , quando il "diritto divino" a perpetrare l’espansionismo coloniale comincia ad essere seriamente messo in dubbio quando i popoli oppressi del mondo cominciano ad affermare il loro "Diritto naturale" a essere liberi e indipendenti.
Le lotte di liberazione, che si sono susseguite durante tutto il XIX secolo, si sono molto accentuate nel secolo successivo, culminando nella dissoluzione di una parte considerevole degli imperi, e nel glorioso raggiungimento della libertà per molti popoli oppressi.
Purtroppo, con il crescente potere di due mostruose superpotenze nella prima parte del XX secolo, USA-URSS, l’espansionismo territoriale-economico assume un allarmante dimensione neocolonialista, neo-imperialista: un nuovo tipo di infiltrazione ideologica cinica e insidiosa, fortificata da una seria dominazione economica.
Questa è una forma di penetrazione internazionale che è durata fino ad oggi e questo grazie anche ad alcuni antichi poteri Europei, oggi ridotti alla mediocrità, che hanno potuto mantenere alcuni dei loro "territori" illecitamente annessi (…).
L’italia, questo puzzle malfatto, nato soltanto nel secolo scorso lotta contro corrente per mantenere nella sua sfera politica nazioni di origine etnica molto diversa e senza affinità culturali, come i Veneti, i Sardi, i popoli nordici del Sud Tirolo. ecc…
Nel nome di un unità prepotente e soffocante il desiderio di sommergere l’individualità etnica dentro il concetto monolitico dello stato indivisibile alcune nazioni oggi deliberatamente chiudono gli occhi alla palese diversità culturale sociale politica dentro le loro frontiere artificialmente create.
L’unità oggi è classificata come la più alta delle virtù. Nonostante ciò, è evidente che la sua vera tendenza non è verso l’unità politica -territoriale, bensì verso l’affermazione etnica e verso il separatismo. Uno dopo l’altro i vasti imperi moderni si sono disintegrati; i componenti individuali ritornano alla loro condizione naturale preimperiali di nazioni sovrane. Cosi, le repubbliche obbligate ad aderire all’URSS sono di nuovo libere e indipendenti; le antiche colonie Inglesi, adesso fanno le proprie leggi e prendono le loro decisioni; l’Asia, l’America latina, l’Africa non sono più obbligate ad inchinarsi davanti agli egoistici padroni stranieri.
Nessuno dibatte la giustezza della causa di queste lotte per l’indipendenza, nemmeno il diritto di quei popoli al separatismo. Ciò nonostante ci sono altre nazioni storiche, alcune molto antiche, che ancora portano le catene di un’oppressione mascherata.
Uno dei popoli che ha contribuito alla formazione della civiltà Europea e alla diffusione degli ideali di libertà, giustizia e armonia sociale, quello Veneto, è ancora costretto a subire i capricci di uno stato invasore e centralista che non vuole accettare il rifiorire di uno spirito di autodeterminazione.
I veri frutti del separatismo non sono lutti e miserie, ma il benessere sociale la prosperità e nuove speranze per il futuro.
L’uomo torna alla sua condizione naturale primordiale di abitante di una comunità nella quale lui ha avuto una partecipazione nella formazione dei diritti politici e giuridici senza obblighi imposti da altri individui atti a sottometterlo a metodi di vita uguali per tutti .
Il concetto fondamentale è questo "come tutti i popoli possiedono il diritto a unirsi ad un altro stato per il beneficio di entrambi, possono anche separarsi eventualmente da quello stato, quando vedono che i loro propri interessi fondamentali, benessere o cultura sono minacciati."
                                                                       

Maria  Fasolo



Gli ebrei, il ghetto, Venezia

Riflessioni di Germano Battilana sulla presenza degli ebrei a Venezia durante la Serenissima.

Domenica 2 aprile 2000, a Venezia, c’è stata la presentazione di un documentario svizzero sul ghetto della città.
Questo documentario non si è limitato alla storia del ghetto (dal 1500 alla fine del 1700), ma ha voluto ripercorrere tutta la storia della comunità ebraica a Venezia, dal suo insediamento ai giorni nostri, senza creare una netta distinzione tra il periodo della Veneta Serenissima Repubblica e quello successivo delle occupazioni straniere. Con la caduta della Repubblica, le politiche applicate nelle nostre città sono state quelle foreste, importate ed imposte. Il fascismo, in particolare, non avrebbe mai potuto né sorgere né svilupparsi nella società veneta che persegue una cultura e dei valori improntati alla tolleranza e al rispetto umano. I Veneti sono dunque gli eredi del Doge e non del Duce Benito Mussolini.
Il rispetto che abbiamo per la comunità ebraica e per la tragedia che ha subito, non può impedirci di ricordare una sua grave responsabilità: quella di aver collaborato con Napoleone per la caduta della Serenissima con tutte le conseguenze negative che ne sono derivate per il Popolo Veneto.
La perdita della nostra indipendenza ha fatto cadere in Europa un baluardo di sicurezza e di protezione per gli Ebrei stessi. Ricordiamo che il termine “ghetto” ad esempio, nulla aveva di discriminante, indicando il luogo dove anticamente si fondevano cannoni (getto di fusione, diventato ghetto, con pronuncia tedesca, perché i primi ebrei ivi ospitati, erano dei rifugiati dai paesi germanici).
I rapporti interni allo Stato Veneto dovevano necessariamente evolvere al passo con i tempi, non soltanto verso la comunità ebraica che – dobbiamo precisare – non era l’unica “discriminata”. Tutto ciò sarebbe dovuto avvenire naturalmente, in una dialettica interna alla società veneta e senza interferenze straniere.
In questi ultimi 200 anni gli Ebrei hanno continuato a coltivare la loro storia e a difendere la loro identità. Storia e identità che a noi Veneti, dopo la caduta della Serenissima si è tentato di negare. Il risveglio della coscienza nazionale Veneta c’induce a distinguere meglio le responsabilità storiche: non possiamo né vogliamo più accettare di vederci attribuire scelte politiche che, come occupati, non potevamo assolutamente compiere.
I Veneti sono chiamati a pagare per le scelte fasciste dello stato italiano, senza che essi abbiano contribuito in alcun modo a determinarle. Dunque la politica verso il ghetto veneziano durante la Serenissima, non deve essere confusa con le politiche di sterminio attuate di recente dalle “moderne” nazioni europee. Soprattutto la politica fascista non può essere confusa in alcun modo con la politica veneta. Qualsiasi giudizio va storicizzato all’epoca dello svolgimento del fatto preso in esame.
Non si può dimenticare che gli ebrei sono arrivati a Venezia per sfuggire ai pogrom promossi contro di loro nei vari altri stati europei.
Nonostante le restrizioni in cui erano sottoposti, hanno trovato una protezione che non esisteva in nessun’altra parte d’Europa. Le cinque sinagoghe di Venezia, divise per paesi di provenienza della comunità, sono una testimonianza di quanto detto sopra.
Noi dobbiamo contrastare talune tesi proveniente da storici, quando affermano che Napoleone ha portato la libertà nel ghetto. Tant’è che la protezione nel cosiddetto “mondo nuovo” non ha risparmiato nulla alla comunità ebraica, mi riferisco ad esempio, alla continuazione dei pogrom in centro Europa e, per ultimo alla Shoa. Le stesse leggi razziali promulgate dal governo italiano nel 1938, sono un altro esempio di quanto detto sopra e non possono coinvolgere il ricordo della Veneta Serenissima Repubblica né tanto meno i Veneti come popolo.
Non va dimenticato che in Francia, terra di “libertà”, la comunità ebraica ha sempre subito discriminazioni, fino ad arrivare addirittura alla collaborazione del governo Petain all’Olocausto. Possiamo affermare che sostanzialmente gli ebrei non erano perseguitati a Venezia, e pur vivendo ristretti, avevano una certa autonomia.
Sicuramente la vita abbastanza tranquilla nel ghetto ha prodotto anche aspetti positivi per la cultura e la religione ebraica veneziana. Il Popolo Veneto, pur non avendo subito un olocausto, ha pagato e paga pesantemente l’occupazione dopo il 1866, occupazione che ha provocato una diaspora delle nostre genti (9 milioni di Veneti sono dispersi nel mondo). Il nostro popolo ha subito e sta subendo un tentativo di etnocidio culturale, perché si tenta di cancellarne la lingua, la cultura, le tradizioni, la dignità attraverso un continuo e martellante utilizzo dei mass media e un uso strumentale della scuola.
Germano Battilana



Le piccole patrie possono ancora vincere

Il caso Vietnam analizzato da Germano Battilana.

La domanda che ci si pone a fronte della volontà dei popoli e nazioni storiche di esigere la loro indipendenza, serve ad aprire una vertenza con i paesi più potenti, sia per motivi geografici, che militari ed economici?
La risposta, oltre ad essere teorica, deve essere ricercata anche sul piano storico. La formazione di decine di stati nuovi in Europa, negli ultimi decenni, è stata frutto di un indebolimento prima e della dissoluzione poi, delle potenze coloniali come l’URSS e della Jugoslavia. E’ evidente che quei popoli che hanno ottenuto la loro giusta e sacrosanta indipendenza (esclusa la Bosnia, in quanto stato virtuale), hanno approfittato di condizioni estremamente favorevoli (oggettive), avendo al loro interno componenti importanti che sono riuscite a mantenere vivo lo spirito patriottico, condizione indispensabile (soggettiva) per essere in grado di concludere positivamente il processo indipendentista.
Ma al di là di queste specifiche situazioni, credo sia utile esaminare le caratteristiche di un altro caso, per la precisione il Vietnam, che a 25 anni dall’ottenimento dell’indipendenza, può offrire un utile test per un’analisi storico-politica. Quest’analisi può essere rilevante per le nazioni che rivendicano il diritto alla propria indipendenza. La lotta per l’autodeterminazione delle nazioni non è e non deve essere in antitesi con la lotta dei popoli subalterni per la difesa dei loro interessi, ma anzi si deve intrecciare ad essa e può avere percorsi ed obbiettivi comuni. Quando parlo di popoli subalterni non intendo solo le classi formate da operai e contadini, ma anche lavoratori intellettuali, commercianti, artigiani, piccola e media industria, in altre parole la quasi totalità delle genti venete, che devono contrapporsi tutti uniti al tentativo di cancellazione della propria identità storica.
L’errore commesso dal partito Comunista Indocinese, è stato proprio quello, dal 1930 al 1941, di pretendere di portare avanti la lotta per l’indipendenza difendendo solo gli interessi della classe operaia, che tra l’altro era numericamente debole. Veniva quindi a mancare il collante unitario per raggiungere le condizioni essenziali per nuove conquiste sociali. La necessità di graduare e modulare la lotta, ha fatto sì che il partito Comunista d’Indocina si sciogliesse e si costituissero partiti e movimenti nazionali nel Laos, in Cambogia, nel Nord Vietnam e nel Sud del Vietnam. Questa decisione è stata la chiave di volta di tutto il successivo processo delle vittoriose lotte di liberazione dell’Indocina.
Tale processo è stato complesso, irto di difficoltà, doloroso come tutti i processi di liberazione, ma quello che conta è la vittoria finale. I successivi equilibri interni del Laos, della Cambogia e del Vietnam non c’interessa esaminarli, perché sono problemi che troveranno una soluzione attraverso una loro dialettica interna.
Questi sono insegnamenti molto importanti, e per certi aspetti decisivi, però mi preme rilevare che anche all’interno dell’indipendentismo veneto esisteva, qualche anno fa, l’approccio a questo dibattito in Quaderni Veneti.
Un movimento nazionale di liberazione, per avere possibilità di successo, deve evitare di schierarsi con parti della società, o con qualche ideologia, ma deve abbracciare nel suo insieme gli interessi della nostra patria, e dimostrare che senza l’indipendenza totale, qualsiasi successo economico è effimero, o senza prospettiva.
Il V.S.G., coerente con tale impostazione, fin dalla sua nascita, ha affermato questi concetti semplici ma efficaci ed ha respinto tutti i tentativi di corruzione del sistema central-colonialista romano (mi riferisco ai vari tentativi atti a coinvolgerci, e sollecitazioni a partecipare a questa o quella competizione elettorale).
Il terzo Congresso del V.S.G. ha precisato e chiarito la nostra linea, per la liberazione della Veneta Patria, rifiutando in maniera chiara e categorica qualsiasi tentazione elettorale affermando che se si accettano tali proposte in buona fede si è degli sprovveduti o, nel caso opposto, dei prezzolati da Roma.
Il Veneto ha una storia millenaria, carica di dignità, prestigio ed onore, che nessuna storiografia colonialista può infangare. La Veneta Serenissima Repubblica ha resistito vittoriosamente a tutti i suoi nemici quando ha fatto appello al popolo, ed è stata sconfitta, quando ha sperato nel buon senso del nemico e nella buonafede dei suoi mediatori, che si sono poi rivelati dei lacchè.
Il V.S.G. ha fatto e fa appello al popolo veneto ed alla sua volontà di lottare, come elemento indispensabile per ottenere quei risultati che tutti auspicano. Poco importa se questi si otterranno in qualche mese od in qualche anno. Il nostro destino è di essere una nazione libera, a prescindere dalla debolezza (Italia) o dalla forza (USA), dei colonialisti che tentano di soffocare i nostri inalienabili diritti.

Germano Battilana